PREMESSA

Ho iniziato a scrivere queste pagine con l’intenzione di mettere in ordine le idee e le riflessioni maturate nel corso degli anni, nel tentativo di tirare le somme su cosa ho imparato finora nella mia vita. Avevo già composto qualche breve scritto in passato, ma questo è il primo tentativo di dare una forma più organica ai miei pensieri.

Sono molte di più le cose che non conosciamo rispetto a quelle che conosciamo. Ogni volta che riusciamo a rispondere ad una domanda che ci eravamo posti, ne nascono delle nuove a cui non sappiamo ancora rispondere. In fondo, balbettiamo alcune certezze in cui crediamo, ignorando il resto che ci rimane oscuro e sconosciuto. Con questa consapevolezza vorrei condividere con voi che mi leggete il mio piccolo frammento di verità, frutto di anni di ricerche e di esperienze, nella speranza che possa essere utile al confronto col vostro frammento di verità, per comporre un mosaico più completo e possibilmente più chiaro.

Ho cercato di tradurre i miei pensieri utilizzando parole semplici, per essere il più possibile chiaro con me stesso e per condividerle con chi avrà voglia di leggermi. Non rientra tra i miei obiettivi dare sfoggio della mia cultura, quindi non troverete un linguaggio forbito con termini che dovrete andare a cercare sul dizionario, ma pensieri semplici, come semplici penso che siano alla fine le cose che contano di più nella vita.

Ho scelto come titolo “Un cammino lungo una vita” perché racchiude in sè un duplice significato: un cammino che dura una vita e un cammino di una vita. Innanzitutto penso che siamo chiamati a compiere un cammino di continua crescita della nostra capacità di amare gli altri come noi stessi e questo cammino non giunge mai al termine ma dura tutta la vita, quindi è ‘lungo una vita’; inoltre, con queste riflessioni vorrei ripercorrere le esperienze e le scoperte che finora ho fatto nella mia vita, che è il cammino di una vita, appunto ‘lungo una vita’.

Buona lettura e un ringraziamento per quanti vorranno condividere le loro osservazioni.

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CAPITOLO 1 – CHE STRANO MISTERO E’ LA VITA

C’è abbastanza luce per credere e abbastanza oscurità per non credere(Blaise Pascal)

Premetto che la parola “mistero” non mi è mai piaciuta perché spesso utilizzata da chi rinuncia a priori ad interrogarsi e ricercare risposte con la propria intelligenza, spingendosi fin dove è possibile. Ma è un’espressione che mi sorge spontanea ripensando alla vita che ho finora vissuto, raggiunta un’età matura e con alle spalle un bagaglio di esperienze che non mi consentono facili certezze o facili entusiasmi giovanili. Certezze ed entusiasmi che sono stati messi alla prova, e quindi temperati dagli eventi della mia vita.

Penso che la nostra vita non segua un percorso lineare e chiaramente leggibile, frutto di un destino già scritto a cui siamo predestinati, ma piuttosto un percorso contorto e imprevedibile, risultato di una somma di molteplici scelte individuali e casuali che si sono succedute nel tempo. La nostra vita non è quella che ci eravamo immaginati quando eravamo più giovani. Io, ad esempio, immaginavo di sposarmi ed avere tanti figli, ed invece mi ritrovo ancora single. La vita comunque non smette di sorprenderci con sempre nuove scoperte, con avvenimenti imprevisti sia positivi che negativi. E non è mai detta l’ultima parola su qualunque questione: chiusa una porta, subito se ne apre un’altra.

Dalle note autobiografiche avrete notato che emerge una forte impronta religiosa cattolica nella mia formazione, e posso dire che la fede ha sempre fatto parte della mia vita, non c’è stato momento in cui mi abbia abbandonato. Ma questo non ha impedito le domande, i dubbi, le perplessità che si sono succeduti nel tempo e che mi hanno accompagnato nel corso degli anni. “C’è abbastanza luce per credere e abbastanza oscurità per non credere” scriveva saggiamente il filosofo e matematico Blaise Pascal. Ci sono motivi per credere in Dio, ma anche motivi per non credere in Lui. Dio non si impone con evidenza, ma si propone e sta a noi e alla nostra libertà di accoglierlo o rifiutarlo. Se Dio fosse una realtà evidente saremmo tutti credenti in Lui, ma non è così.

Penso che tutti, prima o poi, ci siamo posti le domande fondamentali: che senso ha la nostra vita? Perchè ci troviamo qui, su questo pianeta, insieme ai nostri parenti, ai nostri amici e ad altri sette miliardi di persone a domandarci tutti la stessa cosa?

Sono le classiche domande esistenziali: chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?

Mi ha sempre colpito l’immagine di chi ha paragonato la nostra condizione a quella di chi si sveglia su un treno che corre nella notte. Da dove è partito questo treno su cui siamo stati caricati? Quando è partito, e dove è diretto? E perchè proprio questo treno e non un altro? Qualcuno si accontenta di esaminare il proprio scompartimento, di analizzare i materiali, per poi riaddormentarsi tranquillo: ha co­nosciuto l’ambiente che lo circonda e gli basta, il resto non gli interessa. E se poi l’angoscia della destinazione ignota lo prenderà, troverà sempre un modo per scacciarla pensando ad altro.

Il convoglio finirà per imboccare, prima o poi, un tunnel oscuro, senza che nessuno possa scendere prima. Ma che cosa vi sia oltre l’imbocco della misteriosa galleria, nessuno lo sa.

Una cosa è certa: la nostra vita è un dono. Nessuno, infatti, ha fatto richiesta di venire alla luce, così come nessuno ha dovuto guadagnarsi o pagare qualcuno per far parte di questa umanità.

Altrettanto certa è la morte, da cui nessuno può sfuggire, benchè nella nostra società essa rappresenti un argomento-tabù, che è educato tralasciare da ogni discorso e a cui è meglio non pensare per non rischiare di cadere nell’angoscia.

Prima della nascita e dopo la morte, da entrambi i capi la nostra esistenza è immersa nell’ignoto. Il nulla sembra aver preceduto la nostra nascita, forse nel nulla sprofonderemo al termine della no­stra vita.

La questione consente, o meglio, richiede la formulazione di ipo­tesi, che in fondo sono scommesse di vita, dato che non vi è al­cuna certezza sull’argomento. Infatti ancora nessuno ha realizzato il favoloso “scoop” sull’Aldilà, con tanto di riprese filmate sulle esperienze che ci attendono una volta esauriti i nostri processi vitali.

La più grande tentazione, soprattutto nei giovani studenti, è quella di assumere il metodo scientifico di ricerca come criterio di interpretazione assoluta della realtà e, di conseguenza, il ri­fiuto e la negazione di ogni riflessione teorica o anche reli­giosa, considerate come qualcosa di irrazionale e di indimostra­bile. Pur riconoscendo al metodo scientifico meriti indiscutibili ed eccezionali nel campo dell’indagine sulla natura, sembra impos­sibile adottarlo, in modo esclusivo e totalizzante, per l’interpretazione dell’uomo e della sua esistenza. Occorrono altri metodi ed altri strumenti.

La scienza non ha prove dirette a favore dell’esistenza di Dio, ma è anche vero che non ha a disposizione nessuna prova contro. E’ evidente, infatti, che il ragionamento scientifico non può provare che Dio non esiste, perchè Dio supera l’esperienza che è oggetto di scienza. La scienza può arrivare alla sola con­clusione che non c’è nulla di certo e verificabile nel senso della realtà dell’esistenza. Il compito di illuminarci su questi oggetti è competenza di altre discipline della conoscenza, come la filoso­fia, la metafisica o la religione.

Il più grave rischio che corriamo oggi è di trascorrere la nostra esi­stenza senza mai soffermarci a riflettere su di essa, con la scusa che non si approderà in qualunque caso ad una soluzione certa e verificabile. Questa rinuncia alla riflessione sul senso della nostra esistenza, alla ricerca utilizzando la nostra intelligenza spingendosi fin dove è possibile, mi sembra un get­tare a mare la nostra vita, che rimarrà sempre in balia delle onde, prigioniera del “tran-tran” della vita quotidiana, condizio­nata dalle più diverse forze esterne in un’esistenza non piena­mente cosciente e male investita.

Per questo oggi si assiste ad una nuova forma di di­sagio. Un disagio che non è causato da fattori facilmente rileva­bili, come possono essere condizioni economiche, sociali o politi­che, ma un disagio che ha la sua origine nell’esistenza stessa, nel fatto di vivere giorno dopo giorno. Può essere definito come “disagio esistenziale”, in quanto consiste in una carenza di iden­tità personale dovuta a una mancanza di senso nella propria vita. Siamo abituati a vivere sempre di corsa, affannati e preoccupati di fare tante cose. Si riempie ogni attimo della nostra giornata con attività frenetiche e risposte compulsive perché non abbiamo tempo per fermarci a riflettere. Dedichiamo sempre più tempo ed energie a smanettare su smartphone e tablet, alla ricerca dell’ultima novità o pettegolezzo in rete. Viviamo immersi in un frastuono continuo e quando manca il rumore ci vuole sempre una musica di sottofondo. Anche il tempo libero è tempo di stordimento, di ‘sballo’, di musica a tutto volume che ci impedisce di comunicare in profondità.

Il silenzio oggi fa paura, è impegnativo, ci invita a riflettere sulla nostra vita e sui nostri limiti, togliendoci la maschera dietro la quale recitiamo ogni giorno il nostro copione. Dobbiamo riscoprire l’importanza di riservarci degli spazi di silenzio e di raccoglimento, prenderci del tempo per ritrovare noi stessi e riflettere sul senso della nostra vita, le cose più importanti per cui vale la pena vivere e le cose effimere, meno importanti, per cui non vale la pena agitarsi tanto.

In fondo c’è sete di ritrovar se stessi, il senso della nostra vita, ma c’è paura di affrontare quel vuoto interiore che è difficile da colmare. Siamo sempre insoddisfatti e alla ricerca di qualcosa che doni la vera pace interiore, ma ci si aggrappa spesso a qualunque cosa (soldi, beni materiali, persone), mettendole al centro delle nostre attenzioni, facendone degli idoli che non danno la vera felicità, quella che dura.

Non è possibile vivere sempre col dubbio in tasca. A un certo punto bisogna avere il coraggio di svincolarsi dalle sole cose materiali, per ricercare dentro di noi le cose in cui veramente crediamo, le nostre certezze o punti chiari che è impossibile dimostrare rigorosamente, ma che sono di enorme importanza per noi perchè sono quelle che orientano le nostre scelte di vita.

Lo studio dell’astronomia e la struttura dell’universo che mi hanno appassionato, l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, mi ha sempre suggerito l’esistenza di un Essere Superiore Creatore che in qualche modo ha dato inizio a tutto quanto ci sta attorno. Non riesco a concepire un mondo che trova l’origine della sua struttura e delle sue re­gole di funzionamento nel “caso”, in una “natura” che si è fatta da sè e fine a sè stessa. Non credo che l’uomo sia un essere biz­zarro e originale, prodotto del tutto casuale dell’evoluzione della specie, esistente solo per il verificarsi di una sommatoria di condizioni straordinarie al di fuori di ogni controllo esterno.

La struttura della materia, quest’universo composto da miliardi di miliardi di oggetti celesti, la complessità e la perfezione nei meccanismi di funzionamento e autocontrollo della materia vivente, dall’essere unicellulare all’organismo complesso sembrano rive­larci un profondo segreto: l’esistenza di un Essere Soprannaturale che ha architettato e dato vita a tutto quanto e che, in qualche modo che ci è sconosciuto, è presente ed ispira ogni forma vivente.

Spesso si cerca Dio nello straordinario, in miracoli o fenomeni paranormali che rivelino la sua presenza con effetti speciali, con eventi inspiegabili se non per un suo intervento diretto. Ma Dio non si impone, Lui si propone lasciandoci le sue tracce nell’ordinario, nel creato che ci circonda ogni giorno con le sue meraviglie di bellezza e nell’amore di ogni giorno che ci circonda nei nostri cari ed è presente in noi se siamo pronti ad accoglierlo.

Riconosco che le “ragioni” della fede in sè non sono sufficienti a produrre l’atto di fede. Ci sono anche le imperfezioni crudeli nella natura, le patologie, le malformazioni, il male, che sembrano negare la presenza di un Dio buono e perfetto come ce lo immaginiamo. Ci sono aspetti dell’universo che sembrano suggerire che al Supremo architetto qualcosa sia sfuggito o non gli sia riuscito bene. Non viviamo in un mondo perfetto. Allora per avere fede ci vuole un atto di fiducia, è necessario decidere con la nostra volontà di compiere un passo ulteriore oltre all’evidenza dei fatti, dopo aver valutato le ragioni che inducono a credere e quelle che suggeriscono di non credere.

Quindi, c’è abbastanza luce per chi vuol credere e c’è abbastanza oscurità per chi non vuol credere. Che strano mistero è la vita!

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CAPITOLO 2 – CREATI CON AMORE PER AMARE

“Ama il tuo prossimo come te stesso. Non c’è nessun altro comandamento maggiore di questo”
(Mc 12,31)

La scoperta più importante che ho fatto finora nella mia vita è che, per essere felici e vivere bene, occorre volersi bene e donarsi agli altri. E’ seguire il comandamento più grande che ci ha insegnato Gesù: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Venuti al mondo per un atto di amore, siamo fatti per amare. La nostra vera e più profonda natura è che siamo creature portate all’amore vicendevole. E’ come un’impronta scolpita nell’anima che ci ha lasciato il nostro Creatore, una natura intima che ci orienta verso di Lui, ci rivolge verso la nostra origine, come una firma che richiama l’opera verso il proprio autore.

Finora non ho sperimentato nella mia vita felicità più grande e profonda di quella che si prova facendo del bene ad altre persone, specialmente quando sono nel bisogno o in difficoltà. Per questo posso dire che credo nell’amore come senso ultimo della vita. Questa è una certezza che ha sempre illuminato e che illumina la mia vita, detta in poche e semplici parole. Se questa forza d’amore può essere identificata con Dio che è amore, allora vuol dire che credo in Lui, ho fiducia nella sorgente dell’amore universale.

Questa dedizione incondizionata all’altro che tocca nel profondo la più intima natura umana, sprigiona felicità vera che ci rivela che siamo stati creati per amarci, la nostra piena realizzazione umana passa attraverso la cura dell’altro, l’occuparci di chi ci sta accanto ed ha più bisogno di noi.

E’ grazie agli ambienti in cui sono cresciuto che ho maturato questa fede nell’amore, la compassione, il volersi bene, la capacità di donarsi in modo gratuito e disinteressato. Si tratta di ‘decentrarsi’, cioè nel non mettere sé stessi al centro della propria vita per fare spazio agli altri esseri umani, considerandoli tutti come miei fratelli e mie sorelle, facenti parte di un’unica famiglia umana. E allora mi faccio carico anche dei loro problemi, secondo la logica del mettersi a servizio degli altri anziché cercare di prevalere, di dominare o di schiacciarli a vantaggio mio.

Sant’Agostino scriveva: “Signore, ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finchè non trova la pace in te”. Nella mia esperienza, la vera pace interiore si può raggiungere soltanto seguendo quanto ci ha insegnato e dimostrato nella sua vita Gesù, vero e unico esempio di cammino ‘perfetto’ verso Dio. Un cammino all’insegna dell’amore gratuito, del prendersi cura dell’altro, della fratellanza verso tutti. Non è uno stato di estasi mistica da raggiungere una volta per sempre nella solitudine e nell’isolamento dal mondo, ma un modo di essere, di pensare e di agire con un cuore nuovo e uno spirito nuovo che ci spingono a metterci a servizio degli altri.

Più che osservare dei comandamenti, delle leggi e dei precetti, siamo chiamati ad essere fedeli a questo spirito d’amore e di fratellanza universale. I comandamenti sono utili indicazioni pratiche, ma al principio c’è uno spirito, una mentalità, una logica che guida il tutto. Dio vuole il nostro cuore, il resto viene di conseguenza. Dobbiamo imparare a vedere il mondo con gli occhi paterni e materni di Dio ed agire trasportati dal suo sguardo colmo di amore e di attenzioni, così diventando le sue braccia per abbracciare e le sue mani per accarezzare.

Ma non è tutto rose e fiori, come tutti ben sappiamo. La vita sulla Terra non è un perfetto idillio d’amore. Questi pensieri nella mentalità corrente sono ritenuti folli e inconcepibili, spesso veniamo giudicati come fessi ed illusi. Sovente nella pratica l’amore non viene riconosciuto e ricambiato, ma interpretato come una forma interessata di scambio. La nostra gratuità viene vista come un freddo calcolo per ottenere un proprio tornaconto. O a volte capita che la nostra generosità viene sfruttata, usata e abusata senza ritegno. E col più genuino slancio di affetto ci si può ritrovare più soli e incompresi che mai.

Lo spirito mondano più diffuso ci spinge ad accumulare ricchezze e beni personali, in una condizione di potere e di successo riconosciuti nella società, a soddisfare tutti i nostri desideri e capricci. Ad essere persone ‘riuscite’ nella vita, riconosciute e apprezzate, che hanno raggiunto il prestigio, un posto di rilievo nella scala sociale. Che poi il vero riconoscimento e apprezzamento non si raggiunge mai, perché spesso chi è più ricco suscita l’invidia in chi lo è di meno. Ed allora tutto diventa una gara a chi ostenta maggiori ricchezze per dare un’immagine di sé che susciti più invidia negli altri. E in questa competizione ad avere sempre più soldi per guadagnarsi prestigio e successo ci si perde in un circolo vizioso e si smarriscono le cose che più contano nella vita.

Per orientarsi su questo difficile terreno, penso che sia utile innanzitutto inquadrare quelle che ritengo siano le grandi sfide fondamentali che siamo chiamati a giocarci continuamente.  Si tratta di far prevalere o meno delle polarità tra loro contrapposte: quella dell’utilità personale contro il bene altrui e quella del potere e successo personale contrapposta al servizio per gli altri.

Utile personale contro bene altrui. C’è in noi un naturale egocentrismo, stimolato dalla cultura contemporanea orientata all’individualismo narcisista, che ci spinge a pensare solo a noi stessi, a vedere il mondo che ruota attorno alla nostra persona. I nostri pensieri e le nostre azioni sono orientate ad ottenere qualcosa di utile per noi, in termini di denaro, oggetti, gratificazione o soddisfazione di desideri o bisogni personali. Anche le persone che ci circondano diventano strumenti utili a soddisfare quello di cui sentiamo il bisogno. Se non ci servono più, li dimentichiamo. La prima grossa partita della nostra vita si gioca su questo: sul saper guardare le persone che ci circondano non come mezzi a nostro uso e consumo, ma come persone da amare come noi, di cui ci sta a cuore il loro bene quanto il nostro, a cui dedicarci in modo disinteressato, condividendo gioie e dolori, senza pretendere nulla in cambio.

La seconda sfida è tra potere personale e servizio per gli altri, che è intrecciata alla prima partita. L’istinto al dominio, al prevalere sugli altri, all’essere superiore, ad esercitare il nostro potere sugli altri a nostra disposizione, ad essere riconosciute persone di successo, è altrettanto forte. L’insicurezza personale può giocare un grosso ruolo nella ricerca di essere riconosciuti persone importanti e di successo. La partita in gioco è se lasciar prevalere in noi queste motivazioni orientate al dominio o piuttosto cercare di porsi a servizio del bene degli altri, ad essere attenti ai bisogni di chi ci sta accanto, per occuparsi di loro.

Tutto questo senza dimenticarci di noi, ovviamente. Il comandamento dice: ‘Ama il prossimo tuo come te stesso‘ e non ‘più di te stesso‘. Poni gli altri sul tuo stesso piano, occupati di loro come di te stesso. Se non hai rispetto per te stesso, se ti sacrifichi sempre per gli altri senza concederti pause e premi finirai per scoppiare o bruciarti (in psicologia si parla di ‘burnout’), pretendendo da tutti gli stessi sacrifici e perdendo quello sguardo d’amore verso tutto il mondo.

Se vivere secondo questi principi sembra impossibile, per la debolezza che è in noi e per i condizionamenti del mondo che ci sta attorno, non resta che affidarci allo Spirito Santo perchè ci aiuti a vincere ogni giorno questa doppia sfida spirituale. Fare il bene costa, a volte anche molto caro, ma tutto sommato ne vale sempre la pena.

Per entrare dentro questa logica di pensiero occorre un lungo lavoro personale e interiore, un continuo e faticoso cammino spirituale che dura tutta la vita, in quanto non si approda mai ad una meta definitiva se non il Paradiso, ma che qui sulla Terra ci vede impegnati in un continuo divenire con momenti di fermata, di retromarce e di ripartenze, con la possibilità di evolversi verso livelli sempre maggiori di purezza e perfezione. Le sole forze umane non bastano per compiere questa trasformazione interiore. Questa conversione spirituale è possibile solo con l’aiuto di Dio. La forza che ci spinge verso questa difficile impresa viene da Dio, chiamiamola grazia, o Spirito Santo, ma viene da Lui ed è l’unico miracolo od evento prodigioso in cui credo, è la forza interiore che ci dona se gliela chiediamo.

Ma penso che questa sia l’unica via verso la felicità, perché siamo stati creati con amore per amare.

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CAPITOLO 3 – IL CUORE DI PIETRA E L’INGANNO DEGLI IDOLI

“Non avrai altro Dio all’infuori di me” (Es 20,2)

Quali ostacoli ci impediscono di amare veramente?

Innanzitutto c’è la più grande disgrazia che ci possa capitare nella vita: il non aver avuto nell’infanzia un’esperienza di vero amore. Qui entra in gioco il vissuto personale di ciascuno, in particolare i rapporti con i nostri genitori che lasciano un’impronta significativa nella nostra vita. E’ da loro che nei primi anni della nostra vita impariamo cos’è l’amore, viviamo l’esperienza di cosa vuol dire essere amati, circondati dall’affetto paterno e materno. La mancanza di queste esperienze infantili può inaridire il nostro cuore e renderci più difficile, se non impossibile, amare negli anni successivi della nostra vita. Se ci sono state in passato o sussistono nel presente rapporti problematici con uno od entrambi i nostri genitori, in qualche modo occorre individuarli e cercare di superarli andando oltre, altrimenti l’amore di Dio non troverà spazio nel nostro cuore divenuto come ‘di pietra’.

Nella mia vita ho avuto la fortuna di avere genitori esemplari che mi hanno accudito, insegnandomi e dimostrandomi cosa vuol dire amare. Così ho potuto crescere in un ambiente pieno di affetto e calore che oggi sono in grado di trasmettere a chi incontro nella mia vita. Purtroppo non tutti hanno questa fortuna. Per problemi piccoli o grandi nei rapporti familiari ci sono persone che crescono ‘mutilate’ di queste esperienze e hanno difficoltà a capire cos’è l’amore vero, o addirittura sono incapaci di aprirsi all’amore.

Per risolvere questi problemi, piccoli o grandi che siano, possono essere di grande aiuto le scienze umane, in particolare la psicologia, che aiutano a comprendere le cause dei nostri problemi relazionali nel vissuto personale di ciascuno. Riuscire ad individuare e riconoscere la causa del problema è già un grande passo per superarlo. Ovviamente, per chi ha subito grossi traumi psicologici sarà necessario rivolgersi ad una persona competente e specializzata che potrà guidare secondo un percorso fatto su misura.

Personalmente, nel mio periodo di crescita in età giovanile, ho trovato illuminanti alcune letture di Giacomo Dacquino, psicologo e psicoanalista che ha scritto diversi libri divulgativi. In particolare, sono diventato consapevole di alcuni meccanismi più o meno inconsci che avvengono nel nostro cervello, in modo da saperli controllare e incanalare meglio le pulsioni istintive con le giuste motivazioni. Ritengo che siano conoscenze che possono tornare utili per comprendersi meglio e per capire meglio le persone con cui veniamo a contatto. E possono aiutarci ad autoeducarci ad atteggiamenti più maturi e consapevoli, evitando di perdersi in sterili conflitti, sensi di colpa, ansie, frustrazioni e comportamenti aggressivi e deleteri nei rapporti umani. Si tratta di strumenti utili, che non servono a riempire di senso la nostra vita, ma a fornire indicazioni preziose per risolvere problemi di natura psicologica. Le scienze umane, in particolare la psicanalisi, sovente sono viste con sospetto da una certa Chiesa fondata più sul senso di colpa e sul sacrificio fine a sé stesso che sulla misericordia e l’amore di Dio. Ma il lettino dello psicanalista non è in concorrenza col confessionale del prete, in quanto sono su piani diversi.

Purtroppo nella vita si verificano piccole o grandi delusioni che possono spegnere gli entusiasmi e gli slanci generosi tipici dell’età giovanile. La realtà spesso si presenta più dura e più difficile di quanto avevamo immaginato e i nostri ideali possono vacillare o anche frantumarsi di fonte alle prove che la vita ci riserva. Il nostro progetto di vita, a lungo immaginato e perseguito, a volte può fallire miseramente e allora si entra in crisi, presi dallo scoraggiamento che finisce per demotivarci fino a paralizzarci in ogni azione. Delusioni amorose, la mancanza improvvisa di persone care, la perdita dei nostri averi che ci davano una certa sicurezza, sono eventi che purtroppo possono essere sempre dietro l’angolo e presentarsi quando meno ce l’aspettiamo. In questi casi ci troviamo sempre impreparati e rischiamo di cadere nella depressione più profonda. Ma una cosa importante nella vita è essere dei buoni incassatori di colpi, sapersi ogni volta rialzare in piedi e reagire, ritrovare le giuste motivazioni e riprogettare il nostro cammino di vita. Nei momenti difficili è importante il sostegno di chi ci sta più vicino e chiedere aiuto a Dio, che in questi momenti di prova nella nostra vita non può che essere con noi e orientarci nella giusta direzione.

Altri ostacoli che ci impediscono di amare veramente sono i nostri istinti primordiali egocentrici e i condizionamenti della nostra società consumistica dell’apparire, che ci propongono di seguire i falsi idoli del possesso materiale, del successo riconosciuto e del piacere immediato, che troppo spesso occupano uno spazio centrale nella nostra vita. Sono gli idoli contro i quali siamo chiamati a combattere tutti i giorni perché non prendano il posto che spetta a Dio secondo il primo comandamento ‘Non avrai altro Dio all’infuori di me’.

Il nostro naturale egocentrismo, che deriva dal primordiale istinto di sopravvivenza e di conservazione della specie umana, ci spinge ad affermarci anche in modo aggressivo e ad accoppiarci per assicurare una discendenza. Gli psicanalisti parlano di istinto di aggressività e istinto erotico, che risiedono nella parte più primitiva del nostro cervello che condividiamo con gli altri animali meno evoluti. Crescendo nell’età della maturità si impara che non è possibile ottenere tutto e subito, che non siamo noi il centro dell’universo ma che si vive di relazioni con altre persone degne di rispetto come noi. Si impara a controllare e incanalare meglio i nostri istinti primordiali verso l’agonismo sportivo, la determinazione nel lavoro, l’affetto e le attenzioni verso le persone desiderate. La persona matura comprende che non è giusto scaricare le nostre nevrosi e frustrazioni sugli altri o annegarle nell’alcol o in sostanze che sembrano offrire un sollievo momentaneo, ma che peggiorano la situazione rendendoci schiavi e dipendenti. Se non si riesce ad uscire da questo egocentrismo, dal guardarci continuamente il nostro ombelico, e non si decentra la nostra attenzione sugli altri, si rimarrà rinchiusi su se stessi e incapaci di amare.

La bellezza esteriore oggi è diventata un idolo propagandato dalla televisione: se non sei bello o bella sei ‘out’, sei fuori. L’imperativo di oggi è essere belli: donne ‘in forma’ con le misure 90-60-90, uomini palestrati con pettorali e addominali (‘la tartaruga’) ben scolpiti ed esibiti. Chi non risponde ai requisiti è un minorato o minorata, da scartare ed emarginare dalla nostra attenzione, una ‘cozza’ o un ‘mostro’ che non son degni del nostro sguardo. L’estremo rimedio per non essere ‘out’ è la chirurgia estetica, che sta riscuotendo un enorme successo. Anche ragazzi e ragazze minorenni si rivolgono al chirurgo plastico per un ‘ritocchino’.

Siamo ormai abituati a guardare il corpo di una donna o di un uomo come un articolo esposto nella vetrina di un negozio. Deve apparirci bello e piacevole per desiderare di possederlo. Vengono così svalutate le caratteristiche più importanti, che sono quelle interiori: la capacità di attenzione, la pazienza, la comprensione, il trasmettere positività, il sapersi donare gratuitamente, il prendersi cura dell’altro, la condivisione delle proprie cose. Tutte qualità ben più importanti dell’apparenza esteriore. Difendiamoci da questo mondo superficiale, infantile e ottuso! Cambiamo il nostro sguardo, per poter vedere la vera bellezza che è quella interiore, “invisibile agli occhi ma visibile al cuore”, come si legge ne ‘Il piccolo principe’ di Antoine de Saint-Exupéry.

Nella nostra società pare che il denaro e il possesso di beni materiali siano l’idolo imperante. Quello che conta di più è far soldi, arricchirsi per assicurare a sé una vita agiata ed esibire le cose possedute come uno ‘status simbol’. Allora l’accumulo di soldi e cose possedute diventa un Dio, da realizzare anche con mezzi illeciti e senza scrupoli. Meglio arricchirsi in fretta e senza fatica. Non interessa se la propria ricchezza è causa di altre povertà, anzi si prova soddisfazione nel suscitare l’invidia di chi è più povero perché questo ci fa sentire superiori e detentori di maggiore potere. Si entra allora in un vortice senza fine: più si accumulano ricchezze e più si vorrebbe averne ancora di più. Accecati dall’avidità si perde ogni senso di compassione verso chi vive nella povertà e, anziché condividere le proprie ricchezze, si condannano e si giudicano queste persone come fannulloni o esseri inferiori.

Avere potere e successo per essere riconosciuti come persone realizzate e prestigiose può diventare un idolo. Allora si punta ad ottenere posizioni di potere, non per mettersi a servizio della società, ma per occupare il centro dell’attenzione ed essere riconosciuti come personaggi potenti e famosi. E con la bramosia di scalare verso posizioni sempre più alte fino a raggiungere i vertici, utilizzando ogni mezzo, anche eliminando e diffamando ogni persona che è di ostacolo a questo delirio di onnipotenza. Questa tentazione di voler essere a tutti i costi riconosciuti dagli altri come persone realizzate si può insinuare in tutti, anche in chi non ha particolari bramosie di potere. Il ricercare la benevolenza e l’approvazione di tutti, il volere piacere a tutti i costi può privarci della giusta libertà nel compiere le nostre scelte. Ma in fondo ogni scelta personale può essere criticata, non dobbiamo dare troppa importanza alle malelingue. E’ importante sentirci liberi nelle nostre decisioni più intime.

Un altro idolo che può essere messo al centro della nostra vita è la ricerca del piacere immediato. Il piacere è un bisogno fondamentale di ogni essere umano e indispensabile alla salute e all’equilibrio psico-fisico dell’uomo. Piacere che non è soltanto piacere corporale, ma anche piacere psicologico, relazionale, affettivo, spirituale. Una certa cultura del passato ha ispirato la Chiesa verso un atteggiamento sospettoso o addirittura di condanna verso ogni forma di piacere, privilegiando la mortificazione del corpo per elevare l’anima. Si tratta di concezioni che non si ispirano a Gesù e a quanto scritto nei Vangeli, ma a certi filosofi greci come Platone che definiva il corpo come “prigione dell’anima”. Ma quando si va oltre la ricerca delle giuste gratificazioni e cose piacevoli che può offrirci la vita quotidiana, quando la ricerca di piacere diventa ossessiva, un chiodo fisso, una cosa di cui non possiamo fare a meno, allora ne diventiamo schiavi e ne facciamo un nostro idolo. Prevale allora la bramosia di provare piacere, del volerlo tutto e subito senza dover attendere il momento giusto o che maturino le naturali circostanze nel corso del tempo, abbandonandoci alle nostre pulsioni infantili. Si può trattare di ricerca del piacere sessuale o dei piaceri della gola o di altra natura, senza rispettare le leggi che regolano la natura e senza rispettare le persone che coinvolgiamo, che diventano solo oggetti per appagare i nostri istinti e non le persone che amiamo. Spesso si tratta di comportamenti istintivi, che nascono dalla pulsione erotica per la riproduzione della nostra specie, che non sono stati correttamente educati ed orientati in modo positivo, condizionati dal narcisismo e dalla pornografia dilagante sui media. All’origine possono esserci cattiva educazione, cattive abitudini, ricerca di sfogo a frustrazioni o mancanza di prospettive di senso nella vita. Se non ci si libera da queste schiavitù non riusciremo ad amare veramente perché resteremo governati dai nostri vizi.

In fondo, l’unico modo per non cedere più alla tentazione dei nostri idoli è scoprire e credere in qualcosa di più grande che li supera, che vale di più, in modo che l’idolo passa in secondo piano e la tentazione scompare. Così scoprirsi innamorati di una donna, il suo amore per lei, supera la bramosia di possedere il suo corpo e scompare la tentazione di volere altre donne. L’attrazione che proviamo per lei verrà guidato dall’amore che proviamo, che vuol dire rispetto, attenzione e volere il suo bene e non solo il nostro. Analogamente l’amore fraterno verso tutti i nostri simili supera il delirio del potere e la sete di denaro, perché il senso di fraternità va oltre il voler dominare e ritenersi superiore ma apre al servizio e alla condivisione dei propri beni. Se non crediamo in qualcosa di più grande e che la supera, la tentazione continuerà a riproporsi e a conquistarci.

Quindi, per rispondere alla domanda iniziale su quali ostacoli ci impediscono di amare veramente per essere felici, abbiamo visto il dramma di non essere stati amati nella nostra infanzia, le delusioni che la vita ci riserva e che possono spegnere ogni nostro entusiasmo per darci un cuore di pietra, i nostri istinti primordiali non educati correttamente che ci portano all’egoismo narcisista per chiuderci su noi stessi, sulla cura maniacale del proprio aspetto fisico, ad accumulare ricchezza e potere per sentirci superiori ed essere riconosciuti come persone di successo, o a ricercare il piacere immediato considerando le persone come oggetti da usare e buttare quando non ci servono più. Sono tanti gli ostacoli e le tentazioni che possono sbarrarci la strada sul nostro cammino verso l’amore di Dio, è una lotta continua e quotidiana che ci impegna senza tregua. Ognuno di noi ha la propria storia ed è più esposto ad alcuni ostacoli e tentazioni rispetto ad altri. Saperli individuare è già un primo passo per rimuoverli od affrontarli nel modo più corretto. Un passo per volta, con l’impegno costante e l’aiuto di Dio, li possiamo superare.

Oltre agli ostacoli e tentazioni passati in rassegna, esistono delle tentazioni più sottili e occulte che si annidano nelle modalità con cui interpretiamo e viviamo il nostro essere persone religiose. Ma questo tema merita un capitolo a parte.

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CAPITOLO 4 – UN’IMMAGINE DEFORMATA DI DIO

Chi vede me, vede il Padre” (Gv 14,8)

L’immagine di Dio che abbiamo interiorizzato dentro di noi è un tema difficile ma fondamentale. Difficile perché l’immagine di Dio fa parte del nostro inconscio, della parte più profonda e inscrutabile dentro di noi, che si è formata fin dalla nostra infanzia con una sorta di ‘imprinting’ psicologico, difficile da modificare. Una volta che si è formata è difficile da scalfire, se non con un lungo e costante lavoro su noi stessi, che richiede un grosso impegno. Ma è fondamentale perché dall’immagine che abbiamo di Dio scaturisce tutta la nostra vita religiosa: idee, sentimenti e azioni.

Spesso proiettiamo su Dio delle nostre immagini in base alle figure di padre o di persone autorevoli che nella nostra vita abbiamo riconosciuto come superiori a noi: allora Dio ci può apparire severo e inflessibile, giustiziere e punitivo, piuttosto che irascibile e capriccioso, o addirittura sadico che gode delle sofferenze che ci auto infliggiamo a nome suo per propiziarci la sua benevolenza. Di fronte a questo Dio tremendo che incute paura, viene spontaneo di rivolgerci a figure che ci sembrano più buone o comprensive come la Madonna, che essendo mamma riteniamo più disponibile ad ascoltarci e ad esaudire i nostri desideri. O a qualche santo che ci sembra più abbordabile e simile a noi, in grado di ammorbidire la rigidità e l’intransigenza che attribuiamo a Dio. Così facendo si sconfina nel politeismo, come i tanti dèi della mitologia greca e romana. Ma Dio è uno, la Madonna e i santi sono solo persone umane che sono riuscite a rivelare e testimoniare con più successo la sua presenza. Non si può ritenerli più buoni e disponibili di Dio. A pensarci bene sarebbe una bestemmia.

Ai nostri genitori e nonni si insegnava a credere in Dio incutendo paura, coltivando il ‘timore di Dio’ con la prospettiva di una punizione di durata eterna nel caso non avessero ubbidito ai comandamenti e alle regole imposte. La fede si fondava sulla paura della punizione eterna e si seguivano scrupolosamente i comandamenti e le leggi morali per scampare a questo pericolo infernale. L’immagine prevalente era di un Dio giudice e castigatore, che si doveva cercare di non fare arrabbiare per tenere lontane le disgrazie che avrebbe mandato per punirci. Si doveva cercare di propiziarselo con riti e sacrifici, non trasgredire le sue Leggi, per ottenere in cambio la sua benevolenza, e quindi favori e benedizioni. Questo mi sembra più il Dio della Legge farisaico, più vicino a certe pagine dell’Antico Testamento ebraico, anche se richiamato in certi passi del Vangelo secondo Matteo. Per evitare punizioni immediate o eterne, conveniva obbedire per accontentarlo ed ottenere il premio promesso. Un’immagine di Dio giudice severo, dispensatore di premi o punizioni secondo una logica puramente retributiva.

Dalla lettura dei Vangeli a me appare che Gesù ci presenti, invece, un’immagine di Dio padre misericordioso, sempre pronto ad accoglierci: il Dio ‘Abbà’, traducibile in italiano con ‘papà’ o ‘babbo’, che ricorre sovente nel Vangelo secondo Luca. Un Dio che è innanzitutto amore (vedi Vangelo secondo Giovanni), di cui noi siamo chiamati ad essere Tempio, cioè ad accoglierlo per essere abitati spiritualmente. Un Dio che ci ama, si prende cura di noi, e che ci chiama a prenderci cura dei nostri fratelli, in quanto siamo tutti suoi figli, secondo uno spirito di fratellanza, rendendo Lui presente nella storia. Più che proibirci certe azioni (come la maggior parte dei 10 Comandamenti), ci chiama a fare cose grandi, impossibili senza il suo aiuto spirituale, come amare i nostri nemici.

Dai Vangeli sembra emergere diffidenza e incredulità verso questa immagine di Dio Abbà presentata da Gesù. A cominciare da Giovanni il Battista, l’ultimo profeta dell’Antico Testamento, che è stupito dell’assenza al richiamo della punizione divina nella predicazione di Gesù. Allora manda alcuni suoi discepoli per chiedergli se veramente lui è il Messia. A cui Gesù risponde indirettamente: “I ciechi vedono, i sordi sentono, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i morti risorgono alla vita” (Lc 7,18ss). Cioè tutti segni di liberazione dell’uomo dal male per il suo bene, tutti segni della presenza di Dio.

Nella sua predicazione Gesù ha continui e aspri contrasti con le autorità religiose del tempo (Farisei e Sadducei). Gesù li accusa di avere sbarrato la strada che conduce dagli uomini a Dio con una tradizione fatta di numerosi precetti umani (Lc 11,46ss). E al loro legalismo, ribellandosi platealmente alle loro regole, contrappone l’immagine di Dio Abbà. Sarà messo in croce per la pretesa di autoproclamarsi Figlio di Dio e per quest’immagine di Dio Abbà che presenta alle folle.

I suoi stessi discepoli, che hanno avuto il privilegio di avere vissuto accanto a Lui per tanto tempo, che hanno visto i segni dei suoi miracoli, sembrano non comprendere il Dio da lui presentato: gli chiedono dei segni per credere, come Filippo che gli chiede “Mostraci il Padre!” e Gesù risponde “Non hai ancora capito: chi vede me, vede il Padre. Il Padre abita in me, è lui che agisce” (Gv 14,8ss).

Quella proposta dai religiosi del tempo di Gesù è una fede puramente moralistica, fondata sul rispetto delle Leggi divine, dei comandamenti e dei precetti morali. Occorre riconoscere un valore orientativo e indicativo alle leggi morali, come dei paletti che delimitano la strada su cui camminare, ma non bisogna ridurre la fede all’adempimento di questi precetti. O si ricade nell’errore di essere tanto puntigliosi nel seguire ogni più piccola prescrizione quanto lontani dal vivere secondo lo spirito della Legge; tanto attenti ad evitare comportamenti vietati quanto distratti dal mettere in atto comportamenti virtuosi, di fratellanza e di solidarietà. Sempre pronti ad emettere severi giudizi di condanna senza appello, con durezza di cuore e senza amore misericordioso.

Siamo chiamati innanzitutto ad essere fedeli ad uno spirito piuttosto che osservanti di una Legge. Non dobbiamo vivere ossessionati dal male che possiamo commettere e che fa anche parte di noi, ma impegnarci a superarlo per orientarci verso il bene, mettendolo in atto secondo quello spirito d’amore che Gesù ci ha indicato.

Quindi, non è facile comprendere e accettare questa immagine di Dio: per educazione ricevuta a temere Dio, per l’abitudine all’osservanza scrupolosa dei precetti che discendono dalla tradizione umana, per un concetto di giustizia umana senza cuore, o con un ‘cuore di pietra’, di una giustizia ‘retributiva’, per cui ci verrà riconosciuto nell’aldilà solo nella misura dei nostri meriti personali e nulla di più.

Ma questa immagine di Dio Abbà, misericordioso che si prende cura di noi, mi sembra l’immagine più coerente e credibile, oltre che più bella e desiderabile, veramente una buona novella. E’ questa l’immagine giusta a cui dobbiamo orientare la nostra vita? O è un’immagine che ci siamo costruiti perché bella e rassicurante?

Se la parabola del padre misericordioso (o del figliuol prodigo) fa’ chiarezza sull’infinito amore paterno che Dio ha per noi, sempre pronto ad accoglierci, la parabola degli operai nella vigna fa’ chiarezza sulla giustizia di Dio, che è diversa dalla giustizia umana.

I più fortunati non sono gli operai dell’ultima ora che ricevono la stessa paga di quelli che hanno lavorato dalla mattina. Ma quelli che fin dall’inizio della giornata hanno potuto lavorare per Dio (hanno conosciuto Dio, sono stati chiamati da Lui), rispetto a chi ha lavorato solo a fine giornata (ha conosciuto Dio più tardi, ha ricevuto la sua chiamata più tardi). Questi ultimi hanno provato l’angoscia del sentirsi inutili, del non essere stati chiamati da nessuno a fare cose grandi. Direi a fare le cose per cui siamo stati creati, che ci realizzano profondamente e ci rendono felici, pur tra difficoltà e sofferenze.

Queste parabole ci indicano anche che dobbiamo guardare con occhio benevolo gli ultimi arrivati. Imparare a guardare con lo sguardo di Dio chi ha ricevuto e accolto la chiamata di Dio, solo dopo aver attraversato esperienze lontane da lui, esperienze che sono il vero inferno dello spirito, che secondo me si può sperimentare solo qui in questa vita terrena.

Occorre far nostro lo spirito del Padre misericordioso che accoglie e ama, e non del fratello maggiore che diffida e tiene le distanze dal fratello ritornato.

Non è un rapporto d’affari quello che mi lega con Dio, è un rapporto d’amore filiale. Con Dio non sono in affari, non è che se faccio cose buone e sacrifici per lui ottengo in cambio un premio secondo una logica retributiva, come in una operazione commerciale. La fede non è decidersi di credere a Dio solo per fare un buon affare: io faccio il bravo, seguo i suoi comandamenti, in cambio Lui mi dà la vita eterna in Paradiso, e l’affare è fatto. Questa immagine di Dio è di un affarista che mi propone uno scambio ritenuto vantaggioso, una buona transazione commerciale, un investimento per l’eternità. Frutto di un calcolo di convenienza, decido di sacrificare la mia vita mortale in cambio della vita eterna. Ma non siamo mercenari a servizio di Dio, siamo suoi figli.

Il rapporto con Dio dovrebbe essere improntato così: nasce dall’amore per noi, simile all’amore gratuito di un Padre o di una Madre, e desidera che quel suo stesso amore sia presente in noi e ci accompagni nel cammino della nostra vita. Il nostro cuore amante ci spingerà a prenderci cura degli altri uomini e donne di questo pianeta come fratelli di un’unica famiglia umana. Senza paure, senza leggi minuziose da osservare, senza calcoli di convenienza, ma solo per amore.

Una vita di fede basata sull’amore non può limitarsi a compiere riti e ad accostarsi ai sacramenti dispensati in chiesa, senza toccare la nostra vita quotidiana. La cosa più importante non è partecipare a più Messe o Rosari possibili per propiziarsi la benevolenza di Dio e tenersi lontani dalla sua ira che ci porterebbe disgrazie. O accostarsi più volte possibile ai sacramenti per guadagnare punteggio nei confronti di Dio per l’ottenimento del premio finale. La Chiesa non deve essere il supermercato dei sacramenti dove vado per entrare in possesso di facilitazioni per ottenere la salvezza finale. Il nostro rapporto con Dio non deve essere un rapporto d’affari in cui faccio delle cose in cambio di altre cose. I riti e i sacramenti sono celebrazioni e segni di realtà più grandi, dell’amore misericordioso di Dio che ci chiama all’amore misericordioso con tutti gli esseri umani. Il prete non può essere ridotto ad una specie di ‘stregone del villaggio’ a cui rivolgersi per ottenere grazie, ma una guida che mi indica la strada per avvicinarmi a Dio. La Chiesa è una scuola dove si insegna l’amore di Dio per viverlo nella vita di tutti i giorni.

Purtroppo non esistono scorciatoie per l’impegnativo cammino spirituale personale a cui siamo chiamati tutti nella nostra vita. Non valgono raccomandazioni di questo o quel Santo per facilitare il percorso che dobbiamo compiere. Ci si può solo affidare all’aiuto dello Spirito Santo affinchè impariamo a vedere le cose con gli occhi di Dio e amare in modo gratuito come Gesù ci ha insegnato.

Non possiamo accontentarci di una fede devozionale sempre a caccia di prodigi o miracoli, tantomeno a vantaggio di noi stessi. Mi sembra che questa ricerca continua di eventi prodigiosi, di apparizioni con rivelazioni di verità nascoste, riesca oggi ad affascinare molte persone in buona fede attirate da presunti fenomeni paranormali. Spesso si resta turbati o intimoriti di fronte all’annuncio di apocalissi imminenti da cui salvarci, simili a quanto predicano da tempo i testimoni di Geova. Sul verificarsi frequente di miracoli o altri fenomeni paranormali sono molto scettico. Penso che il più delle volte siano il frutto di suggestioni collettive, da cui dobbiamo stare in guardia. Capisco che di fronte alle difficoltà della vita, soprattutto nei momenti in cui siamo provati dalla sofferenza, viene spontaneo appellarci a Dio e ai Santi per ottenere un aiuto. Ma purtroppo non esistono scorciatoie facili per farci risolvere magicamente e senza sforzo i nostri problemi. L’unico aiuto che possiamo chiedere e ottenere è di natura spirituale. Gli eventi prodigiosi sono una rarità misteriosa, sono eventi al momento inspiegabili che forse un giorno la scienza riuscirà a spiegare. Non possiamo rinunciare a prenderci le nostre responsabilità per quanto concretamente possiamo fare, non possiamo restare passivamente in attesa di eventi prodigiosi che d’incanto dovrebbero risollevarci da tutti i problemi della vita. Così scarichiamo le nostre responsabilità su Dio e i Santi che dovrebbero provvedere a tutto secondo il nostro volere. Ci deresponsabilizziamo e strumentalizziamo Dio e i Santi a nostro servizio.

La vita è un impegno continuo di conversione personale, un cammino di trasformazione spirituale che richiede costanza, tempo ed energie. Non si vive di gossip religioso in attesa di segni o interventi divini che magicamente risolvono tutti i nostri problemi. Si vive seguendo Gesù con quanto ha detto e fatto. Le verità essenziali ce le ha rivelate Lui. Non esistono annunci successivi che superano queste verità. Tutt’al più col tempo si possono scoprire nuove modalità di esprimere queste verità, di tradurle secondo il linguaggio di significati della propria epoca, alla luce delle nuove scoperte ed intuizioni messe a disposizione dal pensiero e dalla scienza.

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CAPITOLO 5 – I PASSI DI UN CAMMINO CHE DURA UNA VITA

Se uno vuol venire dietro me, rinunzi a se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16,24)

 

Convertirsi e credere al Vangelo” è la classica formula che sintetizza il programma della vita cristiana e che ci viene ricordato all’inizio della Quaresima con l’imposizione delle ceneri.

La conversione implica un cambiamento di direzione, una mutazione dell’orientamento della nostra vita. Per qualcuno è un mutamento radicale, è una conversione a ‘U’ per ritornare indietro sui propri passi, per una vita orientata in modo totalmente diverso rispetto a prima.

Ma questo ritrovare il giusto orientamento, che può avvenire una sola volta per sempre oppure in diversi momenti della nostra vita, non rappresenta un punto di approdo, ma solo l’inizio di un cammino che durerà tutta la nostra vita. La conversione non è un istante in cui decidiamo tutta la nostra vita. Può esserci un momento illuminante in cui acquisiamo delle chiarezze importanti per orientarci, ma rappresenta solo l’inizio di un cammino verso Dio per il resto della nostra vita.

Nel Vangelo Gesù ci insegna ad amare in profondità. Prima di tutto c’è il comandamento di amare Dio e il prossimo con tutto sé stessi. Per questo la Chiesa dovrebbe essere innanzitutto una scuola d’amore, il luogo dove ci viene proposto e insegnato di amare così come ci ha amato Gesù.

Come si impara ad amare? L’amore si impara giorno per giorno se si vuole amare veramente, perché il voler bene non ha un limite, non c’è una misura che indica quando si è giunti al massimo raggiungibile. Quindi si può imparare ad amare sempre di più. Forse ci si avvicina al limite massimo quando si dona la propria vita, il bene più prezioso che ci è stato donato. Questo può essere indicativo del bene infinito che ci vuole Dio, che nella sua presenza in Gesù, ci ha donato la sua vita per essere stato fedele fino in fondo alle verità che ci ha rivelato. Per avvicinarci a questo ‘amore totale’ siamo chiamati ad un cammino di trasformazione interiore molto impegnativo. Un cammino che dura una vita.

Nella nostra vita siamo chiamati a compiere un continuo cammino d’amore verso Dio, un cammino fatto di tanti passi di ascesa verso l’alto per modificare i nostri atteggiamenti interiori, per convertire la nostra  mentalità e conformarci a Lui, un cammino fatto di tanti passi in avanti perchè richiedono continuità, impegno e costanza nel tempo. Si tratta di un cammino continuo per andare avanti con la possibilità di salire sempre più in alto, salendo diversi scalini che ci richiedono uno sforzo particolare per elevarci un po’ più in alto ad un livello superiore ed avvicinarci a Lui. E’ un po’ come salire le scale di un grattacielo senza fine, con infiniti piani. Ad ogni piano superiore l’orizzonte si allarga e si riescono a vedere più cose, ma è possibile salire sempre più in alto per vedere sempre meglio e ed amare in modo più profondo, avvicinandosi di più a Dio. Per chi ama la montagna può essere più facile immaginare la scalata di un’alta vetta, anche se ci si accorge che esiste sempre una vetta più alta da scalare. O per gli appassionati di videogiochi che, superato un certo livello, si apre sempre un livello superiore più impegnativo.

Riprendendo l’immagine del grattacielo infinito, i primi scalini da risalire per accedere al piano superiore riguardano il nostro modo di amare. Occorre imparare a volere il bene dell’altro senza volerlo possedere e sottometterlo a nostro servizio, essere premurosi conoscendo e rispettando la sua personalità. Un primo livello da raggiungere in questo cammino può allora essere individuato nel voler bene alle persone senza ricercare una nostra utilità immediata, senza porci lo scopo di amare pretendendo di essere ricambiati o che venga riconosciuto continuamente il nostro amore.

Una volta compiuto questo passo e risaliti ad un livello superiore, può accadere che amiamo senza pretendere un ritorno immediato, ma che comunque ci aspettiamo che prima o poi la persona amata ci restituisca nel tempo le attenzioni e le premure che le abbiamo dedicato. Si pretende, insomma, di accumulare un ‘credito’ verso la persona che prima o poi ci dovrà restituire. Se vogliamo salire ad un piano superiore nel nostro cammino verso l’alto può allora  dobbiamo imparare ad amare in modo del tutto gratuito, senza calcolare se prima o poi quello che ho dato mi verrà restituito o meno. Donarsi gratis, senza scopo diverso dal bene dell’altro. E’ questo l’amore che ci ha insegnato e che ha vissuto Gesù, un amore senza calcoli e senza secondi scopi nascosti, ma il puro dono di sé. E per chi ne ha fatto esperienza può essere di per sé fonte di grande gioia personale e condivisa con la persona amata. D’altronde esiste il detto che “C’è più gioia nel dare che nel ricevere”. Non nascondiamoci che c’è anche il rischio della delusione, di rimanere addolorati quando il dono non viene compreso, ma viene respinto e irriso.

E’ chiaro che qui il cammino si fa difficile e le sole forze umane non bastano a sostenere questo duro impegno. Lo scoraggiamento e la tentazione di mollare tutto sono sempre dietro l’angolo. Senza l’aiuto di Dio questo cammino è impossibile. E’ quindi indispensabile che per sostenere questa fatica ci nutriamo quotidianamente della Parola di Dio, in particolare del Vangelo, e che invochiamo nella preghiera l’illuminazione dello spirito di Dio nel muovere i nostri passi.

Allora potremo tentare di salire ad un ulteriore livello, risalendo altri scalini, o meglio ‘gradoni’ per la fatica che comportano, e che consiste nell’amare anche i nostri nemici. Amare chi ci ama è relativamente semplice e naturale perché si ama di riflesso a contraccambiare un atteggiamento che è comune all’altra persona. Ma amare chi ci ha fatto del male è molto più difficile, è più naturale vendicarsi o rompere i rapporti con la persona. Quello che ci propone Gesù è invece una ‘vendetta d’amore’ fatta di perdono e di ostinato amore verso chi ci odia. Questo appare stolto e folle all’intelligenza umana, ma giusto e buono agli occhi di Dio. ‘Non è la strada che è impossibile, ma è l’impossibile ad essere la nostra strada’ affermava il filosofo Kierkegaard.

Il cammino d’amore verso Dio dura tutta la vita, è molto impegnativo perché non si arriva mai alla meta. E se ci si illude di esserci arrivati e ci si ferma, allora vuol dire che si comincia a sprofondare e scendere di livello, tornando sui nostri passi o da dove eravamo partiti. Si tratta di un cammino continuo, che richiede dedizione e costanza, senza mollare mai. Ad ogni scalino che si sale per un livello superiore, ci si accorge che ce ne sono altri da risalire per arrivare a Dio. A volte sembra di essere giunti al massimo livello che potevamo raggiungere e ci costa fatica il cammino per rimanere fedeli allo spirito d’amore. Ma noi siamo ‘capaci di Dio’, creature su misura del proprio creatore, siamo in grado di contenere, portare dentro di noi l’amore infinito di Dio, possiamo essere il suo vero Tempio, il luogo in cui può essere presente e rivelarsi. In questo modo diventeremo come Lui, Padre e Madre dell’umanità intera, in quanto ci sentiremo responsabili di tutti gli uomini e le donne di questo mondo, come se fossimo loro padre e madre.

Per sostenere la fatica di questo cammino occorre nutrirsi bene, così come uno sportivo dobbiamo selezionare con attenzione la nostra alimentazione spirituale. Occorre nutrirsi quotidianamente della Parola di Dio, in particolare del Vangelo, e che nella preghiera di tutti i giorni invochiamo l’illuminazione dello spirito di Dio affinchè ci sostenga nel muovere i nostri passi nella giusta direzione.

Siamo stati creati per fare cose grandi e grande sarà la gioia per esserci donati.

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CAPITOLO 6 – I DUBBI E LE PERPLESSITA’ CHE ACCOMPAGNANO

“Ciascuno di noi ha in sé un non credente e un credente che si parlano dentro, che si interrogano a vicenda e che rimandano continuamente domande pungenti l’uno all’altro” (Carlo Maria Martini)

Come sosteneva il cardinal Carlo Maria Martini nell’iniziativa della “Cattedra dei non credenti”, in noi convivono un credente e un non credente che si pongono a vicenda interrogativi, dubbi e perplessità suscitando inquietudini che ci spingono a porre basi più solide e ragionevoli al nostro credere.

Nella mia vita ho sempre cercato di pensare con la mia testa, di non accontentarmi di verità preconfezionate, ma di sforzarmi per comprenderne le ragioni e la fondatezza. Anche se non riusciremo mai a comprendere tutto, perché ad ogni scoperta si aprono nuove domande, ho sempre avvertito l’esigenza di cercare di comprendere le cose più in profondità, di spingermi fin dove gli strumenti che ho a disposizione mi permettono di arrivare.

Le mie inclinazioni verso le materie scientifiche mi hanno sempre guidato a cercare prove e dimostrazioni per ogni affermazione prima di accettarla ed assumerla tra le cose in cui credo. Questo vale anche per la fede religiosa e le varie dottrine e insegnamenti del catechismo. Siamo chiamati ad essere credenti, non creduloni.

Le varie formule dottrinali, che possono in un primo momento suscitare entusiasmo per la verità schematica che contengono, vanno digerite alla luce della pratica quotidiana, possono essere spunti o indicazioni utili per avvicinarci alla verità per approssimazione, ma sono limitate dal linguaggio e dalla cultura del momento in cui sono scritte.

Perché il male nel mondo?

La questione sulla quale mi sono posto e mi pongo maggiori interrogativi è senz’altro quella sul perché esiste la sofferenza, il negativo, il male nel mondo se Dio, che ha creato tutto, è amore, ci ama come un padre o una madre, è infinitamente buono? Perché nella creazione della natura è prevista anche la sofferenza, il dolore inspiegabile di un essere umano, addirittura di un bambino innocente? Perché questa natura in cui viviamo immersi è così imperfetta e a volte non sembra ‘cosa buona’, ma uscita dalle mani di creatore ‘pasticcione’?

Mi rendo conto che sono domande talmente grandi che non basta una vita per rispondere. Forse avremo risposte definitive solo al cospetto del creatore. Ma qualche ipotesi bisogna pure abbozzarla con i mezzi che abbiamo a disposizione.

Al catechismo ci hanno insegnato che alle origini il mondo era perfetto e che la sofferenza è un castigo divino a causa del peccato originale di Adamo ed Eva. La colpa non è quindi del creatore ma dei nostri progenitori, colpevoli di aver trasgredito al comandamento di Dio, e la cui colpa ricade su tutta l’umanità, quindi anche su di noi. A ben guardare Eva è stata tentata dal serpente, quindi la causa ultima è l’esistenza del diavolo tentatore, di un angelo che si è ribellato a Dio. Quindi la colpa originaria è dell’angelo ribelle. La venuta di Gesù e la sua morte in croce, secondo questo schema, è servito a riparare l’offesa recata dall’uomo a Dio e a ristabilire buoni rapporti. Ma non ha eliminato la sofferenza dal mondo, forse avrà placato l’ira di Dio verso l’uomo ribelle, ma il mondo rimane imperfetto.

L’intero impianto di questa spiegazione del perché esiste il male nel mondo non mi ha mai convinto. Da qualunque lato la si guardi, non regge per diversi motivi. Innanzitutto il racconto delle origini della Genesi non può essere interpretato come una narrazione storica di fatti realmente accaduti. Non si tratta di un libro di cronache antiche, ma di un altro genere letterario. Senza dubbio è un racconto simbolico, secondo cui all’origine di ogni peccato c’è la tentazione di prendere il posto di Dio, di decidere autonomamente che cosa sia bene e che cosa sia male. Un peccato ‘originario’, più che ‘originale’. E poi Dio non è un castigatore che si offende per un nonnulla e che richiede il sangue del figlio per riparare all’offesa. Mi sembra la mentalità di un mostro sanguinario, ben lontano dalla logica di un Dio che è amore. Anche la lettura secondo cui Dio offre suo figlio per riparare ad una disobbedienza degli uomini verso di lui, cioè prima castiga e poi in qualche modo cerca di riparare al proprio castigo, mi pare contorta e che non stia in piedi. Poi alla causa di tutto ci sarebbe un angelo ribelle che è sfuggito alla creazione perfetta di Dio.

Probabilmente questa interpretazione, nella storia della Chiesa, è stato un tentativo di scaricare le colpe che apparentemente sono di Dio con la sua creazione imperfetta, per caricarle sulle spalle dell’uomo.

Forse l’universo è imperfetto fin dalle origini. L’esistenza di un mondo alle origini in armonia perfetta, di una primordiale età dell’oro fa parte di leggende antiche (El Dorado, Eden) che affondano nella mitologia di diverse tradizioni. Ma una perfezione iniziale non c’è mai stata. Forse un mondo perfetto sarà in futuro, qui o in un’altra dimensione. Chi lo sa?

Se il male causato da un essere umano ad un altro essere umano può essere spiegato nella sua libertà di fare il bene o il male, il male che è insito nella natura, le malattie terribili che consumano il corpo che generano sofferenza, sembrano inspiegabili. Perché Dio non ha creato un mondo perfetto senza sofferenza?

Ho già scritto che la sofferenza non può essere legata ad una colpa personale. Non è una punizione che Dio mi manda per un fatto che ho commesso. Su questo punto Gesù è stato chiaro nel rispondere ad una domanda diretta dei suoi discepoli, contestando l’esistenza di un rapporto diretto tra disgrazie che accadono e peccati degli uomini (Lc 13,1-5). Questa immagine di Dio castigatore che ci punisce prontamente è contraria a quella del Dio presentato da Gesù. Non dobbiamo, quindi, propiziarci la sua benedizione per tener lontano i suoi malefici.

Non ritengo giusto neanche il cosiddetto ‘dolorismo’, secondo cui il dolore è la strada obbligata per purificarsi ad arrivare a Dio. Questo non avviene automaticamente in tutti i casi: in certi può succedere, la sofferenza può scavarci dentro e portarci in alto nel nostro cammino, se siamo in grado di accettarla e trarre uno stimolo positivo di crescita nella fede. In altri casi no, la sofferenza può ‘spezzarci dentro’ e renderci più cinici e insensibili, e quindi allontanarci da Dio.

Gesù non ha tolto il dolore dal mondo, non ci ha immunizzati, ma l’ha vissuto in prima persona e ci ha insegnato a dargli un senso e come viverlo, come esprimere amore anche di fronte all’odio. Il simbolo principale che accompagna noi cristiani è la croce, che richiama quanto ha sofferto Gesù per averci amato fino in fondo ed essere stato fedele a Dio, messo in croce da noi uomini per le cose apparentemente scandalose e folli che ha detto e fatto nella sua vita. Il donarsi fino a dare la propria vita, il proprio corpo e il proprio sangue, comporta anche dolore e sofferenza.

Quando Gesù ci ha detto ‘Chi vuole venire dietro di me, prenda la sua croce e mi segua’ significa che ognuno nella sua vita ha il proprio carico di dolori e sofferenze. Dobbiamo innanzitutto aiutare chi tra noi deve portare un carico maggiore di dolori e sofferenze. Secondo quanto ci ha detto Gesù, Dio è più vicino agli ultimi, al povero, al migrante, all’ammalato, al carcerato, alle persone più bisognose. E ogni cosa buona che facciamo venendo incontro ad uno di loro, è come se l’avessimo fatta a Lui. Quindi, Dio sta con chi soffre di più, Dio soffre insieme a lui e cerca di sollevarlo.

Quindi, Gesù non ci rende immuni dalla sofferenza e dal dolore che lui ha provato, ma ci insegna ad essere prossimi da chi ne è investito. Non ci offre spiegazioni filosofiche o metafisiche del perché non viviamo in un mondo perfetto senza sofferenza, ma ci invita ad accettare la situazione e a viverla senza dubitare dell’amore del Padre. La sua resuscitazione da parte di Dio è segno che il suo amore è più forte del male e della morte. Se abbiamo fiducia in Lui, il male e la morte non ci schiacceranno, non avranno l’ultima parola.

Nel cercare di decifrare perché esiste il male, trovo interessante l’immagine per cui l’ombra esiste perché c’è la luce, ma non è tutto luce. Se non esistesse l’oscurità non ci sarebbe l’evidenza della luce perché tutto sarebbe illuminato e nessuno saprebbe cosa comporterebbe la mancanza di luce. Il male e la sofferenza creano una situazione di contrasto che ci permette di capire cosa è il bene e il piacere.

E Satana il diavolo, padrone dell’inferno? Così come sull’esistenza di Dio non ci sono prove inoppugnabili, così anche per Satana. Come ho già scritto, la tradizione dell’angelo ribelle a Dio mi sembra più un’immagine fantasiosa che reale, per personificare il male che purtroppo è cosa reale.

Se il diavolo esiste, penso che la cosa che più lo infastidisce è se lo ignoriamo nel modo più assoluto, rivolgendoci a Dio e concentrandoci sul cammino verso di Lui. Se viviamo ossessionati dalla sua presenza occulta in ogni realtà che viviamo, saremo in preda alle nostre paure cadendo nel suo gioco. Occorre saper riconoscere dove si annida il male per combatterlo, ma rivolgendo tutte le nostre attenzioni a fare il bene come ci ha insegnato Gesù.

Penso che l’inferno sia qui sulla Terra dove c’è odio e non c’è amore: dove c’è guerra, miseria e sofferenza, indifferenza gli uni verso gli altri. Nell’al di là forse esisterà un luogo in cui chi ha scelto di vivere lontano da Dio continuerà la sua esistenza lontano da Lui. Ma essendo Dio un Padre, non chiuderà mai la porta in modo definitivo ad un suo figlio e continuerà ad attenderlo con le braccia aperte.

Creazione, evoluzione, intervento divino

Guardando la creazione del mondo in una prospettiva evolutiva, mi sembra che l’universo intero stia percorrendo un cammino da una situazione di maggiore disordine o caos, verso una situazione di maggiore ordine e complessità che si avvicina, a piccoli passi, verso una maggiore perfezione o compiutezza. In particolare gli esseri viventi, attraverso le mutazioni casuali del genoma, hanno la possibilità di evolversi verso forme sempre più complesse, fino a giungere attualmente agli esseri umani, che rappresentano la forma vivente più complessa esistente sul nostro pianeta.

Siamo l’ultimo anello di una catena evolutiva che ha avuto inizio milioni di anni fa dal primo essere vivente sulla Terra. Le leggi naturali che regolano questa ininterrotta evoluzione consistono principalmente in mutazioni casuali e selezione naturale dei risultati che funzionano meglio. Sembra che nel mondo creato in cui viviamo, anche la natura abbia un certo grado di casualità e di libertà di mutare ed evolversi sempre verso nuove forme. Questa libertà e casualità implica anche il rischio di mutazioni verso forme mal riuscite, che non funzionano bene, verso errori patologici che sono fuori dalla linea di evoluzione della vita verso forme più complesse e ordinate. E allora sorgono le deformità della vita, le disabilità, le malattie genetiche, il cancro contro cui ci tocca lottare. Queste patologie sembrano quasi gli effetti collaterali e indesiderati della libertà di evoluzione degli esseri viventi verso forme sempre più evolute e complesse. Così come l’uomo ha la libertà di decidere di fare il bene o il male, così nell’evoluzione della natura possono esserci sviluppi benigni o maligni, verso forme più perfette o più imperfette. Anche se in questi ultimi casi si tratta di una libertà nella natura che si può chiamare casualità, mentre la libertà dell’uomo di fare il bene o il male non è pre-determinata da leggi naturali ma in ultima istanza è scelta volontaria, anche se può essere condizionata da diversi fattori interni o ambientali. Mi rendo conto che è un discorso complicato, ma è un tentativo di interpretare le leggi naturali insite nel mondo in cui viviamo, che per chi crede è in origine creato da Dio.

Nel corso degli ultimi secoli le scoperte scientifiche hanno permesso a noi esseri umani di dare una spiegazione a diversi fenomeni che in passato si credevano frutto di intervento divino o del maligno. Dietro a fenomeni catastrofici come terremoti, uragani, siccità, epidemie o a fenomeni su corpo e la psiche umana come patologie invalidanti ed epilessie, oggi sappiamo che esistono leggi naturali secondo regole e meccanismi definiti, per cui in certi casi è anche possibile prevenire o curare certe manifestazioni. Ad ogni scoperta si aprono nuovi interrogativi e ulteriori campi di ricerca, per cui non si arriverà mai a conoscere tutto. Questo per dire che probabilmente i casi di diretto intervento divino sulla Terra, se ci sono, sono molto rari. Così come avvenuto in passato, potrebbe trattarsi di fenomeni che oggi sono inspiegabili perché ancora non conosciamo ma che forse in futuro sapremo spiegare come fenomeni naturali che rispondono a semplici leggi prestabilite.  Penso che la manifestazione del divino non sia da ricercare in fenomeni paranormali apparentemente prodigiosi che non riusciamo a spiegarci, ma che forse in futuro potremo spiegare. I veri miracoli succedono continuamente. E’ la creazione che ci circonda, seppure imperfetta. E’ l’amore che ci circonda, è lo spirito d’amore che ci lega tra noi esseri umani e Lui. Non c’è bisogno di diventare cacciatori di fenomeni paranormali per vedere Dio e credere, rischiando di correre dietro a facili suggestioni collettive che possono anche illudere e portare messaggi non evangelici che ci portano fuori strada. Non sono gli eventi prodigiosi di presunte apparizioni che ci devono muovere a credere. Il creato e l’amore che ci circonda sono i veri miracoli e segni che ci fanno vedere la presenza di Dio.

Chiamati alla libertà e non predestinati

Penso che non siamo predestinati ma chiamati. A volte sentiamo predicare che Dio ha un progetto su di noi e che sta a noi scoprirlo. Ma chi ha la linea diretta con lui per conoscerlo? Chi possiede le chiavi per accedere a queste verità? Penso che quando veniamo al mondo Dio non ha un progetto preciso su cosa dobbiamo fare e cosa dobbiamo diventare. Abbiamo delle capacità, dei talenti innati che possiamo sviluppare o trascurare, e delle debolezze a cui possiamo lasciare spazio o combattere. Ma non vi è nulla di prestabilito per il nostro futuro, nulla di già segnato, di una predestinazione. Il destino è nelle nostre mani, dipende dalle nostre scelte. Con le nostre capacità possiamo scegliere diverse strade, possiamo realizzarci nella nostra vita in diversi modi, davanti a noi si aprono continuamente diverse opzioni tra cui scegliere. Ci si affida a Dio perché ci aiuti col suo spirito quando le nostre forze non bastano. Ma un affidarsi eccessivo, sempre e comunque, pensando che il nostro destino sia già scritto ancor prima della nostra nascita può essere rassicurante ma anche de-responsabilizzante. Non dobbiamo dimenticarci della grande libertà che Dio ci ha donato e della conseguente grande responsabilità che abbiamo nelle nostre mani, nelle piccole e grandi scelte di tutti i giorni. Questa grande responsabilità che abbiamo a volte può farci paura, può farci tramare e paralizzarci, può farci sentire colpevoli in caso di errori o di omissioni, ma è la grande libertà che ci è data in questa vita, che possiamo spendere bene o buttare via.

Non siamo predestinati ma chiamati a fare delle cose grandi nella nostra vita, perché non dobbiamo dimenticarci che siamo creature capaci di cose grandi, che si realizzano in pienezza donandosi ai fratelli. E siamo liberi di rispondere a questa chiamata: Dio non può sapere come risponderemo, lo possiamo sorprendere o deludere a seconda della nostra risposta. Lui è sempre pronto ad accoglierci e a perdonare le nostre mancanze durante il nostro cammino, e ad aiutarci col suo spirito. Ma non può governare gli eventi, che sono la somma delle libertà di ciascuno. Non abbiamo un binario precostruito da percorrere, ma tante strade a disposizione lungo le quali scegliamo di camminare, l’importante è orientarsi verso la giusta direzione.

A queste conclusioni sono giunto dopo un lungo e tortuoso cammino, in cui ho cercato di leggere tra gli eventi della mia vita qualche segno del mio destino. Ma ogni segnale che mi è sembrato di cogliere si è sempre rivelato ingannevole, fuorviante, mandandomi fuori strada e procurandomi sofferenze. Ciò ha causato in me una specie di conflitto con Dio, che ho colpevolizzato di tutte le cose che mi sono andate storte nella vita, deteriorando la mia immagine di Lui. Ma noi non siamo burattini nelle sue mani in una storia che ha un copione già scritto. Non tutto ciò che accade dipende da Lui: se ci va bene non è grazie a Lui e se ci va male non è per colpa sua. Questa è una concezione sbagliata di onnipotenza che schiaccerebbe la libertà di noi esseri umani. Ci troviamo a vivere, come gettati in una situazione di vita il cui esito dipende in gran parte dalle nostre scelte e in altra parte dalle scelte degli altri uomini e dalle leggi precostituite della natura. L’unico intervento di Dio è nello spirito che anima le creature, quando queste liberamente lo accolgono.

Facendo un bilancio della mia vita, devo comunque ammettere che su molte cose sono stato fortunato, soprattutto per la buona famiglia in cui sono cresciuto e per il buon lavoro che non mi è mai mancato.

Vangelo di Gesù o Fedone di Platone?

La scoperta dell’importanza della spiritualità come il centro vero e profondo della nostra vita non deve farci dimenticare che noi abbiamo un corpo, anzi meglio dire che siamo un corpo. Un ostacolo che mi ha sempre impedito di vivere in armonia nella Chiesa cattolica è questa visione negativa della dimensione corporea e della sessualità, concepite come peccaminose e da reprimere, a favore della dimensione spirituale e intellettuale, ritenute positive e da sviluppare per avvicinarci a Dio. Vi è in­fatti una certa ascesi concepita come fuga dalla corporeità e dalla sessualità, intesa come disprezzo dei sensi e delle pulsioni istintive. La mortificazione del corpo è ritenuta una virtù da praticare tramite digiuni e astinenze per elevare l’anima a Dio. Ritengo che tali pratiche siano negative e che facciano leva su certe tendenze sado-masochistiche che sono innate in noi. Inoltre si alimenta un senso di colpa verso tutte le forme di cui si può godere dei piaceri che offre la vita, come se il piacere fosse una cosa da temere. Si tratta di un concetto che non ha certo aiutato l’equilibrio psico-affettivo di varie generazioni, bensì lo ha ostacolato e reso problematico. Questo distacco fra psiche e corpo operato dalla nostra cultura ha provocato una intellettualizzazione dell’uomo, che si manifesta in un certo disprezzo, che a volte rasenta la vergogna, del proprio corpo. Ma l’uomo non può essere “puro spirito”. Non diventa più spirito nella misura in cui si spoglia della sua istintività. Un simile concetto di “angelismo” è errato, in quanto nega l’unità psicoso­matica dell’uomo, che è formato da corpo e psiche interconnessi in modo molto stretto.

Nella sua opera “Fedone” il filosofo Platone rappresenta il corpo come “la prigione dell’anima”, che ci impedisce di elevarci verso Dio, un ostacolo per la nostra crescita umana. Questo dualismo tra corpo negativo e anima positiva, tra materia negativa e spirito positivo fa parte della cultura greca che ha influenzato nel Medioevo quella cristiana, ma non fa parte del cristianesimo delle origini. Sono concezioni ereditate dal Fedone di Platone e non dal Vangelo di Gesù. Questo non significa che possiamo vivere in modo narcisistico il nostro corpo o la sessualità senza regole, passando in modo schizofrenico dalle tante proibizioni di un certo tabuismo al permissivismo più sfrenato. Come abbiamo già visto, quando il piacere sessuale viene ricercato in modo sfrenato diventa un idolo, ed è una delle tentazioni più potenti e subdole che ci possono allontanare da una vita nell’amore di Dio, riducendo il partner ad un corpo che è oggetto di piacere. Il piacere e la corporeità, se non diventano degli idoli, non sono peccato ma fanno parte delle espressioni di amore in una vita radicata in Dio.

Tra le conseguenze di questa visione negativa della sfera sessuale c’è tutta una morale sessuale che detta regole minuziose da rispettare in camera da letto di come e quando compiere ogni atto sessuale. Probabilmente l’intento di fondo di queste tradizioni medievali era di limitare i rapporti sessuali precoci e prima del matrimonio per evitare gravidanze indesiderate. Ma oggi con le conoscenze mediche sull’apparato riproduttivo di uomini e donne questi rischi sono più limitati. Il divieto dell’uso del contraccettivo risponde ad una visione dell’atto sessuale che ha come unico scopo la riproduzione, con l’esclusione della legittimità di ricerca di dare e ricevere piacere in un rapporto d’amore. Anche in questo caso la sessualità è concepita come vizio da contenere e limitare. Sembra quasi che, se non servisse per la continuazione della specie, dovrebbe essere vietata del tutto. I voti di castità richiesti ai presbiteri e ai vari ordini cattolici vanno in questo senso, legando sessualità a peccato.

Se la morale cattolica adottasse la stessa severità e lo stesso metro applicato alla sfera sessuale verso il corretto uso delle proprie ricchezze, allora verrebbe fissato il limite massimo di reddito in euro sufficiente per la vita dignitosa di una persona e il resto dovrebbe essere versato a favore dei più poveri o per iniziative caritatevoli. Una norma morale che obbligasse il credente a privarsi del proprio denaro superfluo (fissandone la cifra esatta) a favore dei più bisognosi, avrebbe maggiore fondamento nel Vangelo, dove ci sono più condanne verso la ricchezza che verso i vizi del piacere. E invece no, si è preferito normare minuziosamente come e quando devono avvenire i rapporti sessuali, solo tra uomo e donna sposati e solo in certi giorni al mese se non si vuole o può riempire la propria casa di figli.

I rapporti omossessuali sono proibiti, non sono ritenuti espressioni di amore come tra uomo e donna perché contro la natura. In questo modo vengono segregate e colpevolizzate delle persone che si ritrovano a vivere dentro un corpo che non rappresenta le loro naturali inclinazioni, alimentando l’omofobia che è dentro e fuori la Chiesa.

Una tradizione che a volte tradisce l’autenticità

Oltre a questa visione negativa della dimensione corporea e della sessualità, ci sono altri aspetti in una Chiesa che mi sembra ancora troppo ancorata su tradizioni che hanno origine nel pensiero umano e fedeli ad una cultura di tempi medievali, ma poco radicate nell’annuncio evangelico di Gesù, che dovrebbe essere la vera stella polare, il primo e unico vero riferimento per un cristiano.

Innanzitutto c’è la vecchia figura del Papa Re, un uomo solo al comando infallibilmente ispirato da Dio. Si tratta di una concezione di potere totalitaria e temporale, che si esercita su territori e popoli, che ha condotto alla teocrazia dei Sacri Imperi fino al Romano Pontificio, dove la legge di Dio era legge corrente, così come oggi viene imposta la legge islamica (Sharia) negli Stati in cui vige l’Islam. Un Papa dal potere totalitario esercitato come Re che viene abbinato ad un’infallibilità ispirata da Dio, che quindi non ammette critiche o discussioni. Un delirio di onnipotenza che si è rivelato molto pericoloso per la Chiesa, che per secoli si è dovuta dedicare a questioni legate più a logiche di potere che di fede. Inoltre, la presunta infallibilità ha permesso il perpetuarsi di errori e deragliamenti perché, mancando la possibilità di riconoscere di avere intrapreso strade sbagliate, si continua ad errare senza poter tornare indietro e riparare. Ma il Papa è solo un uomo che viene investito dell’enorme responsabilità di guidare l’umanità verso Dio, con la possibilità di commettere errori come tutti gli uomini. Del resto Pietro, che fu il primo Papa, rinnegò Gesù per tre volte. Dagli Atti degli Apostoli emerge che tra Gesù e i suoi discepoli c’è una grossa differenza in termini di ispirazione da Dio, c’è uno scarto enorme tra Gesù e chi è stato chiamato a trasmettere il suo messaggio. Purtroppo la storia della Chiesa è anche costellata da tanti errori commessi in buona fede da uomini tutt’altro che infallibili. Dalle Crociate e altre guerre sante alla Santa Inquisizione, fino agli scandali di diversi Papi Re. Per fortuna nel tempo la Chiesa si è liberata di molte di queste pesanti zavorre, ma molta strada dovrà ancora percorrere per essere estranea a giochi di potere e vicina a tutti gli uomini, povera e umile, essere autentica come ci ha insegnato Gesù.

E poi c’è una concezione di Chiesa come esclusiva mediatrice tra gli uomini e Dio. “Fuori dalla Chiesa non c’è salvezza”, come recita il Catechismo della Chiesa Cattolica al n.846. Quindi l’amministratrice esclusiva di Dio e proprietaria esclusiva delle cose divine: i sacramenti, lo Spirito Santo e la verità stanno nelle sue mani e nessun’altra istituzione o realtà ha il potere di dispensarle. Anche qui c’è una Chiesa che pretende di essere l’unica via per arrivare a Dio, vuole avere l’esclusiva per mettere in contatto l’uomo e Dio e soprattutto l’esclusiva dei mezzi per potersi salvare e avere la vita eterna. Ma il Padre chiama ogni uomo o donna personalmente appellandosi alla loro coscienza per una vita d’amore come ci ha rivelato Gesù, che è il vero mediatore nella storia tra noi e Dio. Tra l’altro, una forma di amministrazione delle cose divine come la monetizzazione delle indulgenze, il perdono di Dio in cambio di denaro, è tra le cause che ha scatenato la divisione tra Chiesa cattolica e Chiesa protestante a partire dal 1517 con Martin Lutero.

Un altro aspetto, come ho già scritto, è che in certi ambienti della Chiesa permane un’avversità verso la psicologia e la psicanalisi, che sono visti come pericolosi concorrenti che sminuiscono i sensi di colpa e di auto-mortificazione e quindi sottraggono i fedeli al confessionale. Penso che invece si tratti di strumenti utili, che non servono a riempire di senso la nostra vita, ma a fornire indicazioni preziose per risolvere problemi di natura psicologica che possono ostacolare il cammino spirituale nella nostra vita. Il lettino dello psicanalista non è in concorrenza col confessionale del prete, in quanto sono su piani diversi. E’ un po’ come se la Chiesa fosse contraria alla medicina perché allevia le sofferenze e guarisce dalle malattie, mentre il credente deve soffrire per avvicinarsi a Dio.

Per fortuna è arrivato Papa Francesco, che sta cercando di smuovere dal di dentro molte incrostazioni che nei secoli hanno ricoperto la Chiesa di fardelli pesanti e fuorvianti, come la figura di un Papa Re o di una Chiesa ricca e potente. A restituire un’immagine più autentica di un Dio Padre e Madre che si prende cura di ogni uomo, che non si stanca mai di perdonare chi ha sbagliato, che è prossimo ad ogni uomo e donna, specialmente ai più poveri e sofferenti.

Pur tra mille limiti e incertezze, il mio desiderio rimane quello di abbandonarmi a questo Dio-amore che ho scoperto nella mia vita, bello, affascinante per il quale vale la pena dedicare la vita.

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CAPITOLO 7 – L’AMORE DI COPPIA E LE SUE REGOLE

“Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una carne sola”
(Mc 10,7)

Finora ho parlato di amore nel senso più ampio, cioè di quella forza che ci spinge a fare del bene a tutti, dell’amore rivolto all’umanità intera o all’universo, come fratelli e sorelle di un’unica famiglia umana.

Ma la parola ‘amore’ racchiude più significati, e uno di questi è l’amore erotico, cioè quello che nasce e si sviluppa tra uomo e donna per attrazione sessuale, in quanto siamo esseri sessuati che si riproducono per l’unione tra un maschio ed una femmina. E’ la forma di amore più complessa e ingannevole che esista, poichè entra in gioco il de­siderio sessuale, con quell’istinto naturale che tende all’unione fisica. A differenza dell’amore universale è un amore esclusivo, cioè si rivolge verso una sola persona e non ad altre, richiede quindi l’esclusività. Infatti, l’amore erotico esige prerogative stretta­mente individuali, che esistono solo fra determinate persone, e non certo tra tutte. E’ esperienza comune il sentirsi attratti, non solo fisicamente, da una certa persona e non da un’altra, a volte senza riuscire a darsene una ragione.

C’è chi nel rapporto di coppia investe gran parte delle proprie energie vitali (per alcuni è un chiodo fisso nella mente), chi ne rimane deluso dopo aver coltivato esagerate aspettative, chi si illude di trovare nel partner la soluzione dei propri problemi esistenziali per ritrovarsi invece con dei problemi in più da affrontare. Alcuni rimangono segnati per sempre da esperienze amare di amore sviluppando un’avversità verso le persone dell’altro sesso, altri più fortunati trovano la persona giusta con cui trovano la giusta intesa e vanno d’accordo per condividere le gioie e i dolori per il resto della loro vita.

Vi domanderete: cosa avrà da insegnarci sulla vita di coppia un uomo che non è sposato e sulla sua carta d’identità come stato civile risulta ‘Libero’?

Innanzitutto sono anch’io un essere sessuato con un orientamento eterosessuale, cioè sono attratto anch’io dalle donne. E’ vero che non sono sposato ma ho vissuto esperienze di coppia da cui ho imparato molte cose, che provo a sintetizzare in alcune semplici regole da seguire per un rapporto che funzioni bene.

  • Non lasciarsi travolgere dalla passione. Non confondiamo l’innamoramento con l’amore. L’innamoramento è quel particolare stato di forte emozione ed improvvisa intimità che si può verificare quando due persone fino a quel momento sconosciute si scoprono e si rivelano l’una all’altra, provando da questo un immenso pia­cere. Passato un certo periodo (in genere basta qualche settimana o mese) questa passione travolgente tende a svanire e l’amore viene messo alla prova. Soprattutto quando si è più giovani e si ha meno autocontrollo si possono bruciare le tappe e fare l’amore senza conoscersi ancora bene. Soprattutto noi maschi per istinto siamo spinti fortemente all’atto sessuale, relegando in secondo piano l’aspetto sentimentale. Si rischia così di saltare la tappa della reciproca conoscenza profonda e dell’imparare ad amarsi veramente. In genere, a dettare i giusti tempi è la donna.
  • L’amore non è un sentimento a cui abbandonarsi ma richiede impegno costante. L’amore si impara vivendolo e alimentandolo costantemente con impegno e attenzione. E’ come una fiamma che brucia e quindi va costantemente alimentata, altrimenti si spegne. Ci si mette in gioco nel profondo, ci si apre verso il mondo dell’altro, in una continua ricerca di un accordo rispettoso del partner. La propria felicità coincide con la felicità dell’altro, quindi si ricerca sempre un accordo venendosi incontro a vicenda, pronti a rinunciare anche a qualcosa se questo rende più felice l’altro.
  • La coppia se vuole durare deve essere una vita a 3. Per un rapporto d’amore eterosessuale ci vogliono tre ingredienti: un uomo, una donna, l’amore di Dio. Senza un amore profondo, rispettoso, gratuito, senza condizioni, misericordioso, fino a dare la vita per l’altro, il rapporto sarà instabile, fragile, senza garanzia di durata. Dobbiamo essere a immagine di Dio per l’altro, altrimenti è solo uno stare in compagnia finchè ci si sopporta. Questo significa anche saper perdonare l’altro quando sbaglia, così come Dio è pronto a perdonarci quando sbagliamo.
  • Non smettere mai di comunicare e confidarsi con fiducia. Quando c’è un problema bisogna trovare subito il modo di parlarne con calma e con amore, altrimenti il problema rischia di logorare l’armonia del rapporto. Farsi il muso significa serbare un rancore che può crescere e poi esplodere in maniera incontrollata. Non bisogna mai tenersi tutto dentro ma sforzarsi sempre di spiegare il motivo del nostro dispiacere chiedendo ragione all’altro del suo comportamento. Non bisogna mai stancarsi di confidarsi ed ascoltare l’altro, mettendo in comunione il proprio modo di vedere e di sentire le cose del mondo, perché non venga mai a mancare la fiducia vicendevole.
  • Non mettersi mai in testa di voler cambiare l’altro. Non bisogna mai mettersi in testa l’obiettivo di voler cambiare la personalità, le passioni o le preferenze dell’altro a proprio piacimento. Se l’altro non ci piace vorrà dire che lo abbiamo scelto male ed è meglio lasciar perdere. Si può far presente se ci sono atteggiamenti particolarmente fastidiosi su cui richiamare l’attenzione e mettere in discussione. Ma bisogna evitare ogni tentativo di imporre all’altro ciò che più ci aggrada, magari utilizzando sottili ricatti o sotterfugi.
  • Non contabilizzare mai l’amore. Quando si comincia a fare i conti su quanto si fa per amore dell’altro e quanto l’altro fa per amor mio, significa che il rapporto d’amore sta degenerando in un rapporto mercantile di reciproco scambio (io ti do, tu mi dai). Se ami non presenti mai il conto. Non siamo al mercato e quindi non puoi pretendere che ogni gesto d’amore venga contraccambiato immediatamente. Possono esserci periodi in cui uno dei due dà di più dell’altro che ha più bisogno di ricevere e altri periodi in cui si invertono le parti. Ma non si deve mai tenere la contabilità in un rapporto d’amore, se è vero amore.
  • L’orgoglio è nemico dell’amore. Se l’orgoglio prevale sull’amore, se vogliamo sempre aver ragione senza ascoltare con attenzione le ragioni dell’altro si mina il rapporto d’amore. Dobbiamo esprimere le nostre ragioni ma mai imporle all’altro che altrimenti dimostriamo di non rispettare. Quando si sbaglia è giusto ed importante ammetterlo, sapendo che l’altro è sempre pronto a capirci e a perdonarci.
  • La stanchezza è nemica dell’amore. Quando siamo stanchi, dopo una giornata faticosa o dopo aver dormito poco, ogni cosa ci appare più drammatica di quella che in realtà è. La calma e la pazienza calano e si possono dire cose non pensate veramente, o pensate con poco amore. Meglio rimandare le discussioni impegnative a momenti di maggiore lucidità dopo un meritato riposo.

Al di là di queste regole pratiche, nella vita di coppia vale la regola di fondo che il partner non deve mai diventare il mio idolo, il centro della mia vita, al posto di Dio relegato in second’ordine. Il mio compagno o compagna di vita non deve diventare il mio Dio da cui tutto dipende, senza il quale mi sentirei perso. Altrimenti è una dipendenza simbiotica, una patologia, una schiavitù che non mi rende più libero e autodeterminato.

Un idolo subdolo, difficile da smascherare, perché velato in modo che appare buono, positivo. Cosa può esserci di male nell’amore se Dio è amore? L’amore tra uomo e donna è la cosa più umana, naturale e desiderabile che esiste, è il dinamismo che fa andare avanti il mondo. Un idolo che si può nascondere sotto le velate spoglie dell’ideale romantico (‘Va’ dove ti porta il cuore’): un sentimento a cui abbandonarsi seguendo l’impulso passionale. O dell’attrazione fisica: siamo attratti da un corpo che ci piace, soprattutto nell’epoca dell’apparire il contenitore è più importante del contenuto. In ogni caso ci lasciamo travolgere dalla passione (‘Al cuore non si comanda’), per cui tutta la nostra vita ruota attorno al partner: è al centro dei nostri pensieri come una fissazione, per lui/lei facciamo cose che non avremmo mai fatto, rinunciando a parti di noi stessi.

Al tempo stesso penso che non si debba colpevolizzare troppo il perdere la testa per lei/lui: è naturale desiderare di provare l’ebbrezza dell’amore smisurato, grande, per una persona. Forse in fondo è la cosa che più desideriamo. Del resto il Vangelo non deve essere confuso con la filosofia di Platone che predicava il dominio delle passioni del corpo per elevare l’anima. La passione amorosa diventa negativa quando l’altra persona diventa un idolo, più importante di Dio e della nostra fede. Il periodo dell’innamoramento, dell’infatuazione, dell’idealizzazione del partner prima o poi finisce e si riprende coscienza della realtà, dei limiti del nostro partner e delle mille difficoltà a costruire un rapporto d’amore duraturo. Se il rapporto si interrompe, allora ci si ritrova vuoti dentro, depressi, disperati per la perdita dell’idolo su cui avevamo investito tutte le nostre energie.

La strada da seguire in materia d’amore, quella  dell’amore maturo, consiste nel non lasciarsi sopraffare dalle emozioni e sentimenti, governare le forze inconsce usando il cervello, corteggiare rispettando la dignità e la libertà dell’altro, non essere impazienti ma rispettare i tempi naturali in un rapporto di amicizia per conoscersi bene, nutrirsi della Parola di Dio invocando lo Spirito che è la fonte di ogni amore.

Penso che Dio ci chiami ad avere un cuore grande, ma non per riservarlo tutto ad una sola persona, ma perché ci sia posto per tutti. Uno dei compiti principali della nostra vita è quello di dilatare il nostro cuore perché possiamo donare amore a tutti. Naturalmente ci sarà uno spazio particolare per il la compagno/a che scegliamo, perché ci stia accanto e condivida con noi la vita.

Nell’amore di coppia l’equilibrio è sempre soggetto all’instabilità, in quanto ci sono ostacoli che lo rendono più difficile: l’attrazione fisica che può diventare passione accecante o volontà di dominio o possesso del partner, scatenando la gelosia e la mancanza di rispetto della libertà e della sfera individuale dell’altro. Per questo, occorrono attenzione e impegno costante seguendo le regole che ho esposto, altrimenti la fiamma dell’amore, se non è alimentata, si spegnerà.

Se vogliamo fare dei paragoni con le altre forme di amore umano, penso che la forma di amore più semplice sia quella dell’amicizia fraterna. Lì è più probabile che l’amore si manifesti in forma più disinteressata, rivolto al solo bene dell’altro, con maggiore rispetto della libertà altrui. Il rischio è l’eccessivo distacco che può a volte manifestarsi, non essendoci un legame di sangue o un’attrazione fisica. Infatti, nel tempo molte amicizie si perdono o si attenuano, ma basta poco per ridarle forza, in quanto si basano su una scelta libera dettata da simpatia e affinità.

La forma più alta di amore resta quella di un padre o di una madre verso il proprio figlio, che il padre e soprattutto la madre sente come una propria creatura, come una parte di sé a cui si è pronti a dare tutto. In questo rapporto c’è il rischio che il genitore sia troppo possessivo o apprensivo verso il figlio/a e che quindi non lasci il giusto spazio di libertà per misurarsi e crescere in modo indipendente. Ma il rapporto che lega genitori e figli rimane forte, e non è un caso se Gesù ha utilizzato la figura del padre per spiegarci quanto Dio ci voglia bene. Per questo penso che il complimento più grande che si possa ricevere è quello di essere sentiti come padre o madre, anche da parte di chi non è biologicamente nostro figlio/a. In fondo, in tutti i nostri rapporti umani siamo chiamati ad essere immagine del Padre.

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CAPITOLO 8 – IL LAVORO ONESTO CON DIRITTI E DOVERI

“Il lavoro è una necessità, è parte del senso della vita su questa terra, via di maturazione, di sviluppo umano e di realizzazione personale” (Papa Francesco)

Non elevare il denaro a nostro idolo, cioè non porre il guadagno e l’accumulo di denaro come obiettivo della nostra vita, ha come conseguenza che non si vive per lavorare ma si lavora per vivere. Sono nato e cresciuto in Piemonte e in particolare nell’albese, che è luogo di grandi lavoratori, di grandi imprenditori (le famiglie Ferrero e Miroglio le più famose), dove si respira una cultura del lavoro. Qui da noi il lavoro si trova o lo si inventa mettendosi in proprio. La provincia di Cuneo ha uno dei più alti tassi di imprenditorialità d’Italia. Insomma, qui da noi il lavoro è importante, si è abituati a rimboccarsi le maniche e a darsi da fare. I fannulloni sono visti male o con sospetto.

In una terra così, la tentazione di vivere per lavorare è forte. Per fortuna ho imparato fin da bambino da mio papà Aldo che il lavoro non è tutto nella vita, ma che è importante farlo bene ed in modo onesto. Mio padre ha sempre lavorato come dipendente per alcuni anni presso una ditta che distribuiva prodotti farmaceutici e poi come commesso e quindi impiegato in una banca. Ricordo che per la sua precisione nei conteggi era ricercato dai suoi colleghi anche quando era in ferie. Una volta mentre tutta la famiglia era in vacanza al mare ha dovuto lasciarci per una giornata intera per ritornare al lavoro e sistemare i problemi dai quali i suoi colleghi non riuscivano ad uscirne. Nonostante nel corso della sua vita mio padre abbia contato tantissimi soldi di altri (in banca e nel tempo libero per più di 40 anni le offerte alla parrocchia del Duomo di Alba), sono certo che non si è mai intascato 1 lira o 1 centesimo di euro che non fosse del suo stipendio mensile. Come esempio della sua onestà cristallina, ricordo che quando terminava il suo lavoro per avvisare la mamma che sarebbe tornato a casa faceva squillare per 3 volte il nostro telefono di casa per evitare una chiamata che sarebbe costata qualche lira alla banca in cui lavorava.

Oltre all’importanza di far bene il proprio lavoro e all’onestà, da mio padre ho anche imparato la capacità di accontentarsi di vivere con poche cose essenziali, di non bramare per avere tutto e subito e di non ostentare davanti agli altri le proprie ricchezze. In una città sempre più piena di cafoni che non perdono occasione per mettere in mostra l’abito più caro alla moda o l’auto di lusso, mio padre si è sempre vestito in modo semplice accontentandosi di guidare la sua “Bianchina”, o la sua “Prinz L” senza preoccuparsi minimamente di quanto la gente poteva dire di lui. Era sì un’epoca di ristrettezze economiche per una famiglia monoreddito che doveva pagarsi il mutuo sulla casa di abitazione, ma vissuta secondo il motto “chi si accontenta gode”. Eravamo una famiglia felice perché ci volevamo bene e questo ci bastava.

Dopo anni impegnati nello studio senza distrazioni, nel 1985 mi diplomai come ragioniere all’Istituto Tecnico Commerciale “Luigi Einaudi” di Alba con il massimo dei voti. Evitato il servizio militare, allora obbligatorio, per il mio fisico gracile, dal 1986 lavoro presso il gruppo Ferrero come impiegato e quindi come quadro. Devo ammettere che è stata una grossa fortuna nella mia vita avere superato la selezione per entrare a lavorare alla Ferrero. Forse mio padre avrebbe preferito se avessi lavorato in una banca come lui, ma la Ferrero è una grande azienda che offre le stesse sicurezze ed inoltre svolge un’attività seguendo modalità eticamente più elevate.

Chi lo vive tutti i giorni lo sa: il mondo del lavoro subordinato non è facile e semplice. I rapporti coi colleghi di lavoro e coi superiori possono essere buoni o cattivi, sono come i parenti che non te li scegli ma te li trovi così come sono. Ma il clima sul posto di lavoro è di vitale importanza, perché è il luogo dove vivi 8 ore al giorno, è quasi quanto il tempo che si vive nella propria famiglia. Allora diventa fondamentale il rispetto reciproco fra tutti i colleghi con le loro opinioni, anche quelli che ci stanno antipatici, che tifano per l’altra squadra o votano per l’altro partito. Un buon clima di lavoro significa buona e corretta comunicazione, una sana collaborazione che deve prevalere sulla competizione o sullo spirito di prevaricazione e dominio sull’altro. Non dobbiamo dimostrare di essere i più bravi per “fare le scarpe” a tutti, si lavora tutti per la stessa azienda, stiamo sulla stessa barca e quello che conta è il risultato collettivo. L’ambizione di carriera deve essere misurata sulle effettive capacità e limiti di ognuno, più che sulle conoscenze accumulate o sull’essere in simpatia ai propri superiori.

Se c’è una cosa che mi sono sempre rifiutato di fare è quella di “leccare i piedi” ai miei superiori, di prostrarmi di fronte ai capi per ottenere benefici. Ritengo giusto rispettare tutti, compresi i propri capi, ma la dignità personale non ha prezzo. Inoltre, un capo intelligente saprà apprezzare di più ed affidarsi ad un collaboratore capace anche di esprimere critiche o un’opinione contraria, piuttosto che ad un collaboratore che si limita ad eseguire gli ordini e a dire sempre di sì. Non credo che sia votata al successo un’azienda organizzata in modo strettamente gerarchico come in una caserma militare dove il superiore dà ordini e il subordinato esegue senza discutere. Senza l’apporto delle capacità di tutti e il coinvolgimento responsabile di ogni dipendente in un clima di collaborazione e di squadra si finisce per svilire e umiliare le potenzialità dei singoli. Un capo dittatore, per quanto illuminato che sia, farà molti più errori e prenderà decisioni sbagliate se non è capace di confrontarsi ed ascoltare i consigli dei propri collaboratori.

Nel rapporto di lavoro subordinato il lavoratore si trova in una posizione più debole rispetto al proprio datore di lavoro. Quest’ultimo potrebbe pretendere di tutto in termini di orario e prestazione, utilizzando la leva del possibile licenziamento in modo ricattatorio. Per impedire questi abusi di potere esistono delle leggi che regolano tali rapporti di lavoro. L’attività di tutela dei diritti del lavoratore subordinato è compito delle organizzazioni sindacali, che devono vigilare sull’applicazione di quanto previsto dalle leggi e dai contratti che sono stati firmati tra le parti. Si tratta di temi che ho sempre seguito con interesse da quando fui assunto in Ferrero, anche se per molti anni non mi ero mai tesserato ad una sigla sindacale perché indeciso tra la CGIL che mi sembrava su posizioni troppo rigide e massimaliste, piuttosto che la CISL a volte troppo remissiva verso i datori di lavoro. Nel 2006 fui contattato dal sindacalista della CISL Claudio Risso che mi convinse a tesserarmi e a candidarmi alle elezioni dei Rappresentanti Sindacali in Ferrero. Fui eletto e confermato nelle elezioni successive del 2009, 2012 e 2016.

A distanza di più di 10 anni dagli inizi di quest’avventura devo dire che sono contento della scelta che ho fatto. E’ un’attività faticosa, che si somma al lavoro ordinario quasi come un secondo lavoro, ma che mi permette di seguire l’andamento dell’azienda in cui lavoro con un orizzonte più ampio di quello ristretto al mio ufficio. Ma la cosa più importante è che mi permette di mettermi a servizio di tutti i miei colleghi per tutte le questioni che riguardano il rapporto di lavoro.

Fare il rappresentante sindacale oggi richiede molto equilibrio nel recepire i problemi e le richieste dei lavoratori, nel riportarle e formulare le proposte all’azienda, nonché contrattare le soluzioni. Bisogna saper filtrare i problemi veri da quelli pretestuosi, presentarli in maniera corretta ai tavoli di incontro e negoziare le risposte dell’azienda, nonché monitorare la loro messa in pratica. Inoltre è richiesta una certa preparazione in materia di diritti dei lavoratori, di contrattazione nazionale e aziendale, di calcolo in busta paga, di pensioni e previdenza integrativa, nonché di sanità integrativa.

Oltre a far parte del Comitato Esecutivo dei Rappresentanti Sindacali Unitari (RSU), una rappresentanza di 12 RSU sulle 36 elette che si incontra settimanalmente con l’azienda, faccio parte del Comitato di redazione de ‘L’Isola’, un giornale trimestrale delle RSU di Alba e Canale che viene distribuito a più di 3000 lavoratori, in cui mi occupo sia dei contenuti che dell’impaginazione grafica. E’ un esperienza interessante per un importante strumento di informazione tra i lavoratori, così come il sito internet della FAI-CISL della provincia di Cuneo http://faicislcuneo.blogspot.it/ che sono incaricato di gestire con la relativa pagina Facebook http://www.facebook.com/faicislcuneo. Inoltre faccio parte della Commissione bilaterale per la verifica degli indici P.L.O. (Premio Legato Obiettivi), che ha il compito di controllare il calcolo del premio di produttività annuale che spetta a tutti i lavoratori in base a certi parametri previsti dal contratto integrativo aziendale.

In certi periodi mi trovo ad essere l’unico rappresentante sindacale eletto per gli impiegati e i quadri Ferrero di Alba, che sono circa un migliaio, e questo mi carica di responsabilità perché avverto che quello che sono chiamato a fare, se non lo faccio io, non lo farà nessun’altro. E questo in un periodo di repentine trasformazioni e di passaggio generazionale ai vertici dell’azienda le cui ricadute sui lavoratori sono da tenere sotto stretto controllo. Per questo diventano sempre più importanti gli incontri del CAE (Comitato Aziendale Europeo) della Ferrero, dove ci troviamo coi rappresentanti sindacali di tutti gli stabilimenti dell’Unione Europea (Germania, Francia, Belgio, Polonia e Irlanda) e le controparti aziendali per discutere dei risultati economici e delle prospettive future del gruppo Ferrero.

Devo riconoscere che la Ferrero è una grande azienda che da sempre ha avuto un occhio di riguardo per i suoi lavoratori con un welfare avanzato (Fondazione per anziani, asilo nido per figli dipendenti, benefit vari che vanno oltre quanto previsto dal contratto nazionale dell’industria alimentare, ecc.) con la disponibilità e i buoni rapporti con la parte ‘datoriale’ che rendono più semplice la contrattazione sindacale. Però il contatto diretto con rappresentanti dell’azienda che per mestiere si occupano di contrattazione sindacale richiede una conoscenza approfondita degli argomenti che si vanno a trattare. Un compito impegnativo che cerco ogni giorno di svolgere con impegno e passione. Come mi ricorda spesso Franco Ferria, responsabile da diversi anni della Federazione alimentare CISL della provincia di Cuneo, il lavoro nel sindacato è una missione perché si devono affrontare una montagna di problemi e raramente si raccolgono soddisfazioni o riconoscimenti personali.

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CAPITOLO 9 – LA BUONA POLITICA: IL POTERE A SERVIZIO

“Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore“ (Mt 20,25-26)

Quando si parla di politica, la prima reazione di molta gente è di rifiuto a parlarne. “La politica è una cosa sporca, non mi voglio immischiare in queste faccende”, “I politici sono tutti uguali: ladri e delinquenti”, “Bisognerebbe metterli tutti in prigione o ucciderli!”, si sente spesso dire in un’escalation di insulti e maledizioni.  Purtroppo gli esempi di classe politica che abbiamo avuto in questi anni non si sono spesso rivelati all’altezza della situazione, e i numerosi casi di politici corrotti che di tanto in tanto vengono scoperti dalla Magistratura vanno ad alimentare questa immagine di politici faccendieri e briganti.

E poi le lotte interne ai partiti, le diverse fazioni che si combattono per avere poltrone di prestigio, i leader che vengono presto rimpiazzati non appena si appanna la loro immagine popolare. Una politica che si occupa sempre meno di risolvere i problemi dei cittadini ma che si divide in clan che fanno il tifo per un leader che abbia maggiori simpatie popolari da sfruttare alle prossime elezioni.

Io ho sempre pensato che la politica non sia una cosa sporca, semmai sono i politici che possono renderla sporca. Come diceva Papa Paolo VI, può essere “una delle forme più alte di carità”. Si assume il potere per mettersi a servizio del bene di tutti, prendendosi carico dei problemi della collettività e di quelli globali, senza pretendere un tornaconto e senza deliri di onnipotenza. Questa è la buona politica a servizio del bene comune. Si assume il potere con responsabilità, mettendosi a servizio di tutti.

Gli uomini e le donne che si dedicano alla politica dovrebbero essere le persone migliori che possano rappresentare la nazione: le più preparate ad affrontare problemi complessi che richiedono conoscenze approfondite, le più oneste per scacciare le innumerevoli tentazioni che la gestione di tanto denaro può comportare, le più orientate al bene comune di tutti e non solo di una parte dei cittadini, con una visione di lungo respiro verso il futuro.

A livello nazionale hanno invece preso il sopravvento politici che sono innanzitutto abili parlatori, buoni venditori di immagine secondo le più raffinate tecniche di marketing. Fanno promesse utilizzando semplici slogan ad effetto come negli spot pubblicitari, secondo una politica demagogica con obiettivi di corto respiro, senza visioni e progetti per il futuro a lungo termine.

In Italia il mondo politico è perennemente in campagna elettorale, attento non tanto ai fatti ma alle dichiarazioni pubbliche per strappare qualche consenso popolare in più agli avversari. Per attirare l’attenzione dei mass-media può diventare una gara a chi la spara più grossa, salvo poi fare rettifiche e precisazioni quando la sparata è sulle prime pagine di tutti i giornali. In questo contesto diventa difficile fare una buona politica a servizio del bene comune.

Nel mondo occidentale, e in particolare in Italia, un problema che ritengo sia sottovalutato dal mondo politico è la disoccupazione e il precariato giovanile, che da troppo tempo ha assunto le dimensioni di una tragedia generazionale. Tanti giovani che, terminati gli studi, faticano a trovare un lavoro e, quando lo trovano, si tratta di lavori precari, sottopagati e a tempo determinato. In questo modo abbiamo intere generazioni senza futuro, o che faticano a vedere una stabile prospettiva futura per poter progettare una famiglia e generare figli. In Italia sembrano abbondare i cosiddetti ‘lavori poveri’ in agricoltura, nell’industria manifatturiera o nella cura delle persone anziane, che vengono occupati da lavoratori immigrati più disponibili a ricoprire queste mansioni. I lavori più qualificati scarseggiano e molti giovani laureati sono costretti ad emigrare all’estero con una ‘fuga di cervelli’ preoccupante (si contano più di 100.000 giovani all’anno). La politica dovrebbe mettere al primo posto questo problema, innanzitutto investendo su istruzione, sviluppo e ricerca per modernizzare la nostra economia, come stanno già facendo gli altri Paesi europei e come hanno cominciato a fare anche le nazioni in forte crescita economica, come Cina e India. E poi creando incentivi economici per rapporti di lavoro più stabili e ammortizzatori sociali per i periodi di transizione tra un lavoro precario e l’altro (la cosiddetta ‘flex-security’).

Più in generale, il mondo del lavoro vede un progressivo assottigliarsi dei posti di lavoro perché il progresso tecnologico permette di far lavorare sempre più le macchine e i computer e sempre meno l’uomo. Per assicurare un lavoro dignitoso a tutti si dovrà prima o poi inventare qualcosa per ‘lavorare meno per lavorare tutti’ o per redistribuire la ricchezza verso i soggetti emarginati dal mondo del lavoro.

A livello internazionale viviamo in un periodo dove in Europa e in America stanno risorgendo gli spiriti nazionalistici con aspetti razzisti e xenofobi, capitanati da uomini autoritari ritenuti forti e autorevoli, a cominciare da Donald Trump negli Stati Uniti, Viktor Orban in Ungheria e Marie Le Pen in Francia. Gli Stati europei con i loro nazionalismi stanno mettendo in discussione il progetto di Unione Europea nato nel 1957 in Italia, che ha permesso un lungo periodo di pace dopo due sanguinose guerre mondiali ed una prosperità economica con la creazione di una moneta unica, l’Euro, che non ha precedenti nella storia. In un contesto economico sempre più globalizzato, dove sono sempre più protagoniste della scena mondiale grandi nazioni come Cina, Brasile, India e Russia, la politica ha bisogno di risposte sempre più globali che l’Europa può dare solo se è unita. Le singole nazioni europee non contano più nulla se non si uniscono tra loro. Per fare un esempio, se l’Italia uscisse dall’Euro per tornare alla Lira come moneta nazionale, la nostra valuta sarebbe molto più debole e ci troveremo tutti più poveri con una perdita stimata del nostro potere d’acquisto di almeno il 30%.

Anche l’America di Trump si sta chiudendo sempre più in se stessa. In un mondo di flussi migratori crescenti per guerre e condizioni di miseria in aumento gli Stati Uniti, Paese per eccellenza di migrazione, si chiude ergendo muri e divieti di ingresso selettivi su base etnica o religiosa. Mentre l’umanità ha bisogno di maggiore unione d’intenti tra le nazioni per affrontare grandi problemi globali come uno sviluppo sostenibile per evitare l‘esaurimento delle risorse naturali e le alterazioni del clima, regolare i flussi migratori e le sue cause, evitando i conflitti e le condizioni di miseria in cui vive gran parte dell’umanità.

In un mondo globalizzato per affrontare problemi globali occorre maggiore unione e unità d’intenti e uomini politici alla guida delle nazioni sempre più illuminati e di grandi prospettive. Purtroppo Donald Trump è l’esempio vivente della negazione di tutte queste aspettative.

In questo contesto l’ONU dovrebbe giocare un ruolo fondamentale per mediare tra i conflitti latenti o manifesti, dettare regole valide per tutti e far prevalere la pace e la giustizia in tutte le parti del mondo. Purtroppo oggi le Nazioni Unite non hanno ancora quell’autorità che sarebbe necessaria ed è ancora dominata dai Paesi vincitori della Seconda Guerra Mondiale. Penso che sia sempre più urgente una riforma dell’ONU perché serve un Governo mondiale riconosciuto da tutti che si ponga a guida di tutte le Nazioni. Le guerre in corso in varie parti del mondo e gli squilibri economici che generano ondate migratorie, i cambiamenti climatici, il terrorismo internazionale, nonché il risorgere di nazionalismi guerrafondai necessitano di un luogo di ricomposizione. Purtroppo i segnali oggi non vanno in questa direzione. Sembrano ancora dominare i grandi interessi economici a scapito del bene comune, i Paesi più ricchi sono interessati a diventare sempre più ricchi senza interesse verso i Paesi dove c’è fame e miseria, l’industria delle armi necessita di sempre nuovi teatri di scontro per svilupparsi, gli stessi cambiamenti climatici globali vengono messi in dubbio nonostante le evidenze scientifiche. Il quadro mondiale non promette bene, ma se crediamo che in fondo la Terra è di tutti e che siamo tutti fratelli e sorelle non possiamo smettere di interessarci, di batterci e di fare la nostra parte per una buona politica con l’obiettivo del bene comune.

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