CAPITOLO 10 – NEI PROBLEMI GLOBALI PER PRIMI VENGONO GLI ULTIMI

“Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito? 45Ma egli risponderà: In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me.”  (Mt 25, 44-45)

Fin da giovane sono sempre rimasto colpito dalle enormi differenze tra le condizioni di vita di uomini e donne che abitano le diverse parti della Terra. In particolare dal fatto che ancora oggi milioni di persone soffrono fino a morire di fame e per malattie curabili, in condizioni di estrema miseria. Ho sempre trovato profondamente ingiusto che il 20% della popolazione mondiale più ricca, di cui noi facciamo parte, abbia a disposizione il 90% delle ricchezze della Terra e che, quindi, al restante 80% più povero non rimanga che il 10% delle risorse del pianeta. Penso che il problema più grave e scandaloso dell’umanità sia questa enorme disparità tra le condizioni di miseria e degrado in cui sono costretti a vivere milioni di persone in diverse parti del mondo, mentre noi che viviamo nei Paesi più ricchi siamo spesso dediti al consumo di cose inutili e allo spreco di alimenti e di risorse naturali preziose. Il nostro pianeta avrebbe le risorse per sfamare e permettere una vita dignitosa a tutti i suoi abitanti, ma le risorse sono distribuite male e il risultato è che c’è chi ha tutto e di più e chi ha niente e fatica a sopravvivere. Inoltre, il consumo sfrenato di risorse sta sconvolgendo gli equilibri naturali del nostro pianeta, compromettendo le condizioni di vita delle future generazioni.

Mi sono sempre interessato a questi problemi globali, cioè le questioni che riguardano l’umanità nel suo insieme, che ad oggi conta più di 7 miliardi di persone, che popola il nostro pianeta. Spesso la televisione e i mass-media si soffermano sulle beghe locali o tutt’al più nazionali, mentre vengono dimenticate le questioni che riguardano popoli oltre i nostri confini o lontani da noi. Destano più attenzione i piccoli fatti di cronaca locale che sembrano appassionare per mesi gli italiani, piuttosto che i drammi di guerre e carestie che provocano molti morti tutti i giorni e migrazioni forzate di popoli in diverse parti del mondo. C’è un’indifferenza verso le sofferenze umane che sembra crescere col crescere delle distanze dai nostri confini nazionali. Questa indifferenza è ingiustificabile sia da un punto di vista cristiano che umano. In Italia siamo malati di un provincialismo da cui dobbiamo guarire: non siamo l’ombelico del mondo!

Queste ingiustizie provocano morte e sofferenze, in quanto sono tra le origini di ostilità e guerre continue, alimentate dal commercio di armamenti sempre più sofisticati, antichi odii tribali che generano nazionalismi e intolleranze razziali e religiose. Riconosco che sono problemi enormi più grandi di noi, che andrebbero affrontati a livello politico su scala internazionale, concedendo più poteri alla Nazioni Unite per mettere fine ai conflitti ed aiutando massicciamente le nazioni più povere per rendere più dignitose le vite dei propri cittadini.

Mi sembra evidente che c’è qualcosa che non funziona bene nel modello di economia che si è imposto a livello mondiale. Purtroppo il libero mercato funziona bene quando incoraggia l’intraprendenza e il lavoro dei singoli individui, ma non funziona bene nella distribuzione di beni e ricchezze tra tutti gli individui. Poi c’è la finanza speculativa che punta al guadagno facile senza preoccuparsi delle conseguenze negative sui risparmiatori o sulle popolazioni che pagano le fluttuazioni periodiche dei mercati. Credo che sia necessario rivedere a livello mondiale il nostro modello di economia secondo una logica di equa distribuzione delle ricchezze e una sostenibilità ambientale per non compromettere gli equilibri naturali del nostro pianeta. Probabilmente questo discorso non viene affrontato a livello mondiale perché si scontra con gli interessi di grosse imprese multinazionali ed è politicamente impopolare, in quanto comporterebbe per i Paesi più ricchi a dover rinunciare ad una crescita economica continua e illimitata per accontentarsi del livello di ricchezza attuale. Qualcuno propone il termine ‘decrescita felice’, nel segno di una ritrovata sobrietà e della riscoperta di valori umani come la comunità e la solidarietà che oggi sembrano essere messi in secondo piano. La direzione dovrebbe essere questa, anche se preferisco parlare di ‘sviluppo sostenibile’, in cui il progresso tecnologico deve essere orientato al benessere di tutti e alla salvaguardia dell’ambiente in cui viviamo.

Non è semplice scardinare i meccanismi che generano povertà in molte parti del mondo. Negli ultimi decenni la situazione è migliorata in diversi Paesi dell’Asia che sono stati interessati da un certo sviluppo economico come Cina, India e Paesi dell’indocina, mentre è ancora critica in molti Paesi dell’Africa sub-sahariana, centrale e orientale. Su questi ultimi Paesi pesa ancora molto il passato coloniale, con molte imprese multinazionali americane o europee ancora dedite allo sfruttamento delle ricchezze minerarie e delle risorse agricole locali. Negli ultimi decenni anche la Cina è sbarcata in Africa, costruendo strade e altre opere pubbliche in cambio di terreni coltivabili o materie prime. Inoltre, una classe politica locale spesso corrotta o regimi dittatoriali che non sono in grado di organizzare istituzioni adeguate per assicurare sanità, istruzione e lo sviluppo di un’economia che permetta di distribuire le ricchezze che offre il Paese. A volte ci sono odii tribali che scatenano omicidi di massa per un nonnulla o la presenza di bande armate in perenne guerra fra loro che si contendono i territori più ricchi.

Per quanto mi è possibile, ho sempre cercato di sensibilizzare su questi temi le persone con cui vengo a contatto, e di aiutare quelle persone e organizzazioni che cercano in qualche modo di intervenire nei Paesi più poveri con micro-progetti o altre iniziative di promozione umana. Mi riferisco alle Organizzazioni Non Governative come UNICEF, Save the Children e SOS Villaggi dei bambini che intervengono a favore dell’infanzia malata e abbandonata; all’UNHCR che soccorre milioni di rifugiati di guerra; Medici senza frontiere, Emergency e Medici per l’Africa che organizzano interventi sanitari dove ci sono malnutrizione, epidemie, malattie non curate dai sistemi sanitari nazionali; Mani Tese, AMREF, CESVI, COOPI e altri che realizzano micro-progetti per dare cibo e lavoro. Da non dimenticare i diversi missionari che uniscono all’annuncio del Vangelo diverse iniziative di promozione umana come istruzione, salute e cibo, in territori dove un pasto completo al giorno è già molto.

Per conoscere meglio le condizioni di chi vive nei Paesi più poveri nel 2006 feci un viaggio in Africa organizzato dal Centro Missionario Diocesano nella diocesi di Marsabit in Kenya, che fu fondata nel 1963 da don Paolo Tablino e da don Bartolomeo Venturino. L’esperienza vissuta in quelle 3 settimane in ‘un altro mondo’, che ho cercato di raccontare giorno per giorno nel ‘Diario illustrato di un viaggio missionario in Kenya’ (http://diariokenya.myblog.it/) ha lasciato un segno indelebile nella mia vita, che cercherò ora di riassumere brevemente.

Erano diversi anni che desideravo visitare l’Africa per vedere direttamente con i miei occhi, senza mediazioni, la situazione nel continente più povero del mondo.

L’occasione arrivò con un viaggio promosso dal Centro Missionario Diocesano e dall’Azione Cattolica albese alla missione di Marsabit nel Kenya. Anche se per diversi anni non ci sono più stati sacerdoti diocesani alla missione, l’Azione Cattolica albese ha continuato a sostenere la missione e ad organizzare viaggi di conoscenza per i giovani. Il racconto di alcuni amici che erano già stati in quei luoghi e la partecipazione a un corso sulla realtà delle missioni albesi in Kenya, Brasile, India e Bangladesh, mi convinsero a partire per fare quest’esperienza.

Mi unii a tre ragazze, Simona, Eugenia e Serena, e con l’aiuto di Patrizia Manzone del Centro Missionario  organizzammo un viaggio di tre settimane, dal 20 ottobre al 13 novembre. Nella preparazione ci aiutarono i sacerdoti che erano stati in missione, don Bartolomeo Venturino, don Giacomo Tibaldi,  don Vincenzo Molino e don Flavio Costa, oltre a diversi giovani che ci avevano preceduto in viaggi negli anni passati.

Con noi portammo molte lettere e offerte per i missionari, oltre a una piccola attrezzatura medica e generi di conforto alimentari difficilmente trovabili nel continente nero.

Durante il viaggio in aereo sorvolammo il deserto del Sahara. La distesa di sabbia rosa interrotta da alcuni solchi scuri mi dettero l’impressione di volare sul pianeta Marte. Più tardi mi resi conto che in effetti stavamo per atterrare su un altro pianeta rispetto a quello dove vivevamo abitualmente, in un viaggio intercontinentale che somigliava ad un viaggio interplanetario.

Una volta atterrati, notammo subito che sulle strade le auto erano poche, c’erano diversi pulmini (‘matatu’) stracarichi che sfrecciavano.  La maggior parte della gente si spostava a piedi, anche per molti chilometri, alcuni su biciclette cariche di roba fino all’inverosimile.  C’era anche gente su carretti trainati da muli.  Molto rare le auto private per pochi ricchi. Notammo subito una situazione di povertà diffusa.

Nelle soste del viaggio in auto da Nairobi a Marsabit vedemmo bambini, uomini e donne sorridenti e disponibili al saluto.   Ma dopo il saluto i bambini tendevano la mano sperando di ottenere qualcosa. In pochi attimi eravamo accerchiati da chi voleva venderci la propria mercanzia o semplici curiosi che ci ponevano mille domande in inglese.

Ad un certo punto del viaggio verso Marsabit finì la strada asfaltata e per tre settimane vedemmo solo strade sterrate piene di buche, che in caso di pioggia diventavano fangose e piene di insidie.

Eravamo entrati nel nord del Kenya, la zona più povera e dimenticata del Paese. Per chilometri il paesaggio era semidesertico, non incontrammo alcun centro abitato ma solo isolati pastori di cammelli e capre che ci salutavano dal ciglio della strada.

Quando finalmente arrivammo alla missione potemmo fare la doccia calda avendo cura di non sprecare l’acqua piovana raccolta nelle cisterne e riscaldata con i pannelli solari. Per la prima volta nella mia vita dormii in un letto con la zanzariera. La malaria, trasmessa da un particolare tipo di zanzara, è una delle principali cause di morte da quelle parti, soprattutto per i bambini dei villaggi che non hanno nessun tipo di assistenza medica.

Alcuni mesi prima nei dintorni di Marsabit erano avvenute delle stragi tribali, tra le tribù Gabbra e Borana, in cui avevano perso la vita circa 80 persone, tra cui molti bambini. Lo stato di tensione tra le due tribù più diffuse sul territorio aveva messo in forse il nostro viaggio, ma per fortuna la situazione si era ristabilita. Comunque lungo il nostro viaggio notammo molti pastori con in spalla un fucile.

Marsabit è il più grande centro della zona e contava circa 30.000 abitanti. Si presentava come molti dei paesi che attraversammo il giorno precedente: piccoli negozi in lamiera colorata in centro, il distributore di carburante, gente ferma per strada o che si muoveva a piedi su strade sterrate e fangose piene di buche. Notai le abitazioni attorno alla missione, alcune in muratura  ma la maggioranza più povere in lamiera. Facevano eccezione alcune case di commercianti più benestanti in centro e le case costruite in periferia per i dipendenti pubblici.

Il centro del paese era costituito da una serie di piccole botteghe colorate col tetto in lamiera dove si poteva trovare di tutto. Lungo le strade fangose incontrammo capre allo stato brado, gente in bicicletta (pochi, perché là è un bene di lusso) e tanta gente a piedi che ci guardava con curiosità. Non potemmo scattare molte fotografie perché gli abitanti del luogo non gradivano. Al termine della camminata le nostre scarpe erano coperte da uno strato di fango.

Sembrava che con il nostro arrivo avessimo portato la pioggia. In questa zona dell’Africa equatoriale ci sono due periodi di piogge nel corso dell’anno: da marzo a maggio c’è la stagione delle grandi piogge, mentre a novembre ci sono le piccole piogge. Le nuvole arrivano da est dall’Oceano Indiano e si scaricano al mattino soprattutto nella zona di Marsabit e i rilievi dei dintorni, dove predomina il verde della foresta e dei campi coltivati. A pochi chilometri tutto intorno si scende in una zona semidesertica dove piove di meno e la vegetazione è formata da piccoli arbusti e alberi di acacia, il regno dei piccoli villaggi di pastori di cammelli e capre.

La gente era contenta della pioggia perché voleva dire che c’era acqua per bere, lavarsi e coltivare qualcosa.

A Marsabit i mussulmani rappresentavano il 70% della popolazione, esistevano diverse moschee, ma erano rari i fenomeni di fondamentalismo, anche se molti provenivano dalla vicina Somalia. Più di recente (gennaio 2018) è stato arrestato un imam fondamentalista e sono scoppiati dei disordini da parte dei suoi studenti che hanno coinvolto anche la missione. I mussulmani si facevano  sentire già all’alba quando recitavano le preghiere e i ‘muezzin’diffondevano la loro voce nel paese coi megafoni, facendo concorrenza alla chiesa protestante che si avvaleva degli stessi mezzi. Padre Alex Ferreira, allora parroco della città, ci parlò della Consulta religiosa di Marsabit che riuniva rappresentanti cattolici, protestanti e mussulmani per creare un clima di dialogo e di pace dopo gli scontri tribali dell’anno precedente. Non era un luogo di dialogo interreligioso, ma comunque era un modo per incontrarsi e conoscersi, superando pregiudizi e diffidenze.

Durante il nostro viaggio incontrammo don Paolo Tablino al nuovo santuario sulla collina che domina Marsabit, una specie di casa Altavilla albese a Marsabit. Conoscevo già don Tablino perché amico di famiglia, soprattutto di mio zio Beppe Diale. Non lo vedevo da diversi anni, ma conservava una grande lucidità dimostrando la sua immensa cultura, nonostante i suoi 78 anni. Ci spiegò le diverse tribù che vivono in zona: i Borana che sono in maggioranza nella zona di Marsabit, i Gabbra in maggioranza a Maikona, i Rendille a Kargi, i Samburu più a sud e i Turkana sparsi sul territorio. Parlammo anche del centro per disabili che era in costruzione a Dirib Gombo, per cui don Gino Chiesa in Italia stava organizzando una raccolta fondi.

Don Tablino morì il 4 maggio 2009 per complicazioni in seguito ad un’infezione ad una gamba. Fu sepolto vicino al santuario dopo un funerale molto partecipato dalla popolazione locale. Di lui restano i libri che ha scritto e viene ricordato con venerazione dai suoi molti amici ogni mese il giorno 4 alla Messa in Duomo ad Alba. E’ stata avviata una causa di beatificazione per l’enorme bene che ha contraddistinto la sua esistenza.

Visitammo diverse scuole fondate dai missionari. Nelle aule c’erano le cose essenziali per una scuola: i banchi e le panche per gli alunni, una cattedra e una lavagna per l’insegnante, qualche carta geografica appesa alle pareti. Sui pavimenti c’era molta terra, conseguenza del fango presente lungo le strade dopo le piogge di questi giorni, che viene trasportato all’interno. L’istruzione è essenziale per aprire le menti e lo spirito, e per permettere a tutti di affrancarsi dalla povertà e formare persone che sappiano organizzare e guidare le comunità locali. Per i bambini più poveri è anche un modo per nutrirsi con un pasto completo ogni giorno offerto dalla scuola.

Nelle 3 settimane di soggiorno lasciammo per alcuni giorni i diversi comfort offerti dai locali della missione di Marsabit per avventurarci nel deserto della missione di Kargi. Il viaggio ci offrì un panorama mozzafiato nella discesa nel deserto e l’acquazzone improvviso che incontrammo ci costrinse a guadare fiumiciattoli improvvisati. Per fortuna non ci impantanammo, anche perché là non esisteva l’ACI e il cellulare non prendeva.

Ricordo che la sera prima di coricarmi, con la luce della mia torcia elettrica ispezionai il letto e il pavimento per assicurarmi che non ci fossero scorpioni o altri animali sgraditi. La notte a Kargi era un po’ calda ma riuscimmo a dormire cullati dai canti Rendille provenienti dalle vicine manyatte. Le serate da quelle parti, senza televisione, si trascorrevano tra canti e danze intorno al fuoco, mentre gli uomini adulti e gli anziani si incontravano in una zona recintata per discutere dei problemi del villaggio.

Al mattino seguente, nonostante una fastidiosa pioggia, con suor Alberta e la cuoca Rose facemmo il giro delle manyatte di Kargi. La gente era molto accogliente e vestita in modo curato. Rimanemmo colpiti da due ragazzi disabili che vivevano nella loro capanna. Là non esistevano strutture per loro e trascorrevano tutto il tempo rinchiusi nella capanna. I missionari ci raccontarono che le femmine disabili venivano lasciate morire appena nate.

Nei locali adibiti alle riunioni parrocchiali incontrammo alcuni volontari che stavano preparando sacchetti contenenti farina, zucchero con un po’ di olio per le famiglie più bisognose e coi bambini più denutriti. Ci fermammo alcuni minuti per dare una mano a versare i diversi ingredienti da grossi sacchi di carta in un grosso recipiente dove venivano mescolati.

Nella missione c’era una scuola primaria costruita da padre John Asteggiano, un dispensario medico seguito dall’infermiere John, con alcuni posti letto per seguire i parti e i casi più gravi in quanto l’ospedale più vicino era raggiungibile con diverse ore di automobile.

Nel corso del nostro soggiorno a Kargi ci dovemmo adattare: oltre a mancare l’elettricità ci potevamo lavare utilizzando poca acqua che ci eravamo portati nelle taniche da Marsabit e che versavamo in una bacinella. I servizi igienici consistevano in un buco nel terreno posto dentro una casetta in lamiera che stava dietro la casa parrocchiale. Di giorno bisognava difendersi dagli insetti mentre di notte bisognava prima fare uscire eventuali pipistrelli.

Durante una visita ad una famiglia del villaggio bevemmo il ‘chai’, la bevanda tipica del luogo, a base di latte e thè che sa di caffelatte affumicato. Un po’ di timore di essere colpiti da dissenteria, noi abituati a bere solo acqua precedentemente bollita e filtrata. Riuscimmo ad onorare l’ospitalità senza conseguenze spiacevoli. Dopo il nostro viaggio venimmo a sapere che molta gente del villaggio si ammalò di leucemia e che in seguito si scoprì la causa: l’acqua del pozzo a cui attingeva la gente era stata contaminata da rifiuti radioattivi sepolti negli scavi esplorativi alla ricerca di petrolio.

Ricordo che cenammo al chiaro di luna mangiando riso e carne di capra in compagnia dei catechisti di Kargi. Il cibo era buono e assaggiai anche il piccione che la sera prima padre Alex aveva catturato nella chiesa. Quando il cibo è carente si mangia di tutto.

Quando ritornammo a Marsabit, andammo a visitare l’ospedale del paese. Ogni reparto si trovava in una costruzione indipendente e per passare da uno all’altro si doveva uscire all’esterno esposti alle intemperie e al fango della stagione delle piogge.

Sembrava di essere tornati indietro nel tempo a 100 anni fa: i letti erano ammassati, uno vicino all’altro senza senso della privacy; i dottori si facevano desiderare: durante la nostra visita vedemmo solo delle figure intermedie tra medici e infermieri; secondo il parere di Simona e Jenny, che lavorano in ambiente sanitario, l’igiene sembrava inesistente anche se ovunque si avvertiva un forte odore di disinfettante (creolina) che al termine della visita mi lasciò con un senso di nausea.

Il cibo veniva distribuito dentro secchi o bacinelle. Sembrava di essere più in una stalla dove di allevavano animali che in un ospedale.

Tra i pazienti incontrammo una donna affetta da A.I.D.S. che era sdraiata sul lettino e cercava di mangiare qualcosa prendendo con le mani il riso contenuto in un secchio. Un’altra donna era coperta di bende perché si era ustionata nell’incendio della sua capanna. Suor Betta ci spiegò che succedevano spesso questi casi alle donne mentre cucinavano nella loro capanna. Quindi ci unimmo in preghiera con parenti e amici di un uomo giovane che era molto grave. Di un medico neanche l’ombra. Ci dissero che per avere le medicine bisognava procurarsele da chi le aveva (in genere nelle cliniche private) e, ovviamente, pagarle.

Meglio non ammalarsi mai, da quelle parti. Quel giorno mi sembrò non solo di essere atterrato su un altro pianeta, ma di essere tornato indietro con la macchina del tempo o di vivere in un sogno fuori dalla realtà.

Camminando per le strade di Marsabit facemmo un rapido sopralluogo allo stagno artificiale costruito dalla gente del posto per trattenere l’acqua. Il colore marrone dell’acqua, nonostante le abbondanti piogge di quei giorni, rendeva evidente le pessime condizioni igieniche in cui viveva la maggior parte della popolazione, a continuo rischio di infezioni e dissenterie. Nella missione in cui soggiornammo l’acqua piovana veniva raccolta dai tetti e convogliata in grosse cisterne. Quindi veniva pompata in una cisterna posta più in alto da dove, per caduta, scendeva negli impianti idraulici delle cucine e dei bagni. Per renderla potabile, l’acqua veniva prima bollita e quindi filtrata. Per questo motivo bevemmo solo l’acqua filtrata che ci fornivano i missionari e con questa ci lavavamo anche i denti.

Visitammo alcuni villaggi nei dintorni di Marsabit, abitati da gente di tribù Borana. Le campagne erano verdi dopo le piogge del giorno prima e numerosi erano gli aratri in azione trainati da buoi molto magri. Non vidi alcun trattore: anche l’agricoltura sembrava essere rimasta indietro di 100 anni.

Alla vista mia vista, in quanto uomo, alcune donne scapparono all’interno delle capanne per timore di venire punite dai loro uomini solo per aver rivolto la parola ad un altro uomo.

Nei discorsi durante la giornata venimmo a sapere che da queste parti era diffusa l’usanza dell’infibulazione delle ragazze, cioè la mutilazione genitale, anche se senza cucitura. E questa crudele usanza si manteneva anche nei convertiti cristiani! Povere ragazze! La condizione femminile era veramente difficile: sottomesse e spesso picchiate dall’uomo per futili motivi, costrette a lavori pesanti come andare al pozzo per procurarsi l’acqua e procurarsi la legna per il fuoco oltre a crescere la numerosa prole, le aspettava anche la mutilazione genitale..

Prima di cena facemmo un bel falò con i rifiuti che avevamo prodotto in queste 2 settimane. La raccolta dei rifiuti là non esisteva. Si potevano notare qua e là, ammassati sul ciglio della strada, dei piccoli mucchi di rifiuti. Pochi perché là si tendeva a riutilizzare tutto e non si buttava via quasi niente.

Passammo da Kararre, a pochi chilometri da Marsabit, dove da poco tempo avevano edificato una nuova moschea. Suor Ornella ci disse che l’islam si stava diffondendo in modo capillare perché andava d’accordo con le usanze tribali in cui la donna era sottomessa ed era prevista la poligamia. E questo nonostante tanti anni di lavoro dei missionari cattolici.

Durante il viaggio di ritorno verso Nairobi notammo con maggiore evidenza, dopo più di 2 settimane a Marsabit e dintorni, la differenza tra Kenya del nord ed il resto del Paese. La strada sterrata fin dai tempi coloniali inglesi, anche perché l’asfaltatura era osteggiata dai locali, è il simbolo dell’arretratezza economica e della volontà di mantenere i costumi e le usanze tribali, come una vera e propria ‘riserva naturale umana’. Da allora, dopo diversi anni di lavori affidati a ditte cinesi, la strada è stata asfaltata nell’ambito del grande progetto di collegamento trans-africano da nord a sud.

Nairobi è una città dai forti contrasti, dove nel raggio di pochi chilometri si alternano quartieri di persone benestanti con ‘slums’, come vengono chiamate là le baraccopoli.

Il primo giorno visitammo la parte ricca della città, dove si concentrano le attività commerciali e si ergono numerosi grattacieli che sembra di trovarsi a New York o in una metropoli del Sud Africa.

Il giorno seguente toccò alla parte povera di Nairobi. Dei 4 milioni di abitanti della capitale del Kenya, si stimava che 2,5 milioni viveva nelle 199 baraccopoli, immense come Kibera che contava 800.000 abitanti e con le più piccole con qualche centinaio di persone. Nella mattinata andammo a Messa nella Chiesa di St. John nella baraccopoli di Korogocho, accompagnati da padre Lobato. Seguendo i consigli dei missionari lasciai a casa il portafoglio e l’orologio, portandomi dietro solo il passaporto e pochi spiccioli. Non avevo con me la fotocamera perché troppo voluminosa. Le ragazze riuscirono a scattare alcune foto con le loro fotocamere più compatte che tenevano in tasca. Il rischio di venire scippati era molto elevato, e allora ci spostavamo velocemente senza mai staccarci dal gruppo. Qualcuno si avvicinò solo per chiedere denaro.

Korogocho è una delle baraccopoli di Nairobi che sorge su una discarica di rifiuti, allora popolata da circa 120.000 persone che vivevano in baracche di fango e lamiere su un’area di 1,5 kmq. Le baracche sono attaccate le une alle altre, divise da stretti viottoli che fanno da scolo di acque e fogna a cielo aperto. La pioggia battente rendeva ancora più sinistro e lugubre l’ambiente. Circa 80% degli abitanti di Korogocho era costretto a pagare un affitto ai proprietari delle baracche. Pranzammo nei locali della parrocchia, dove visse per diversi anni padre Alex Zanotelli, missionario comboniano famoso per alcuni suoi libri e per i suoi provocanti interventi sui mass-media.

Questo viaggio in terra d’Africa ha lasciato in me un segno indelebile. Non solo un nostalgico o romantico ‘mal d’Africa’ per la bellezza selvaggia di quelle terre, ma anche e soprattutto un certo disappunto per aver visto coi miei occhi e impresso nella mia mente numerose immagini di una condizione di vita povera e disagiata in cui vivono milioni di persone. E quindi un senso di profonda ingiustizia, se paragonata alla condizione in cui siamo abituati a vivere noi, circondati da mille cose inutili e nello spreco di risorse preziose.

Ho visto molta povertà materiale ma anche molta ricchezza spirituale. Nei numerosi sorrisi di bimbi e adulti che ho incontrato, ho potuto notare la serenità e l’armonia di una vita semplice, anche se piena di stenti e di fame non saziata.

E ho avuto la fortuna di incontrare i missionari,  persone eccezionali che ci hanno accolto come padri, madri, fratelli e sorelle di un’unica famiglia umana e che nell’accompagnarci in questo angolo di mondo ci hanno insegnato come stare in mezzo alla gente, instaurare rapporti semplici e profondi con tutti, con un’attenzione particolare ai più bisognosi e indifesi.

Ritornato nella società dei consumi, non posso che ripromettermi una vita più sobria, senza desiderare di circondarmi di cose non essenziali, senza sprecare risorse preziose come l’acqua, ma utilizzando tutti gli strumenti possibili a disposizione per dare un aiuto, seppur piccolo, ai nostri missionari impegnati in prima linea a servizio degli ultimi. Come la vendita dei prodotti artigianali delle donne Turkana nei mercatini delle solidarietà o nelle feste di paese, la raccolta di fondi per singoli progetti o per l’adozione a distanza dei ragazzi e delle ragazze della scuola primaria in memoria di John Asteggiano.

E cercare di sensibilizzare più gente possibile sullo squilibrio ingiusto di ricchezze e condizioni di vita tra il nostro mondo e i Paesi poveri. Spero con questo racconto di aver contribuito alla causa.

CAPITOLO 10 – NEI PROBLEMI GLOBALI PER PRIMI VENGONO GLI ULTIMIultima modifica: 2017-06-20T17:34:54+02:00da lucianorosso
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