CAPITOLO 4 – UN’IMMAGINE DEFORMATA DI DIO

Chi vede me, vede il Padre” (Gv 14,8)

L’immagine di Dio che abbiamo interiorizzato dentro di noi è un tema difficile ma fondamentale. Difficile perché l’immagine di Dio fa parte del nostro inconscio, della parte più profonda e inscrutabile dentro di noi, che si è formata fin dalla nostra infanzia con una sorta di ‘imprinting’ psicologico, difficile da modificare. Una volta che si è formata è difficile da scalfire, se non con un lungo e costante lavoro su noi stessi, che richiede un grosso impegno. Ma è fondamentale perché dall’immagine che abbiamo di Dio scaturisce tutta la nostra vita religiosa: idee, sentimenti e azioni.

Spesso proiettiamo su Dio delle nostre immagini in base alle figure di padre o di persone autorevoli che nella nostra vita abbiamo riconosciuto come superiori a noi: allora Dio ci può apparire severo e inflessibile, giustiziere e punitivo, piuttosto che irascibile e capriccioso, o addirittura sadico che gode delle sofferenze che ci auto infliggiamo a nome suo per propiziarci la sua benevolenza. Di fronte a questo Dio tremendo che incute paura, viene spontaneo di rivolgerci a figure che ci sembrano più buone o comprensive come la Madonna, che essendo mamma riteniamo più disponibile ad ascoltarci e ad esaudire i nostri desideri. O a qualche santo che ci sembra più abbordabile e simile a noi, in grado di ammorbidire la rigidità e l’intransigenza che attribuiamo a Dio. Così facendo si sconfina nel politeismo, come i tanti dèi della mitologia greca e romana. Ma Dio è uno, la Madonna e i santi sono solo persone umane che sono riuscite a rivelare e testimoniare con più successo la sua presenza. Non si può ritenerli più buoni e disponibili di Dio. A pensarci bene sarebbe una bestemmia.

Ai nostri genitori e nonni si insegnava a credere in Dio incutendo paura, coltivando il ‘timore di Dio’ con la prospettiva di una punizione di durata eterna nel caso non avessero ubbidito ai comandamenti e alle regole imposte. La fede si fondava sulla paura della punizione eterna e si seguivano scrupolosamente i comandamenti e le leggi morali per scampare a questo pericolo infernale. L’immagine prevalente era di un Dio giudice e castigatore, che si doveva cercare di non fare arrabbiare per tenere lontane le disgrazie che avrebbe mandato per punirci. Si doveva cercare di propiziarselo con riti e sacrifici, non trasgredire le sue Leggi, per ottenere in cambio la sua benevolenza, e quindi favori e benedizioni. Questo mi sembra più il Dio della Legge farisaico, più vicino a certe pagine dell’Antico Testamento ebraico, anche se richiamato in certi passi del Vangelo secondo Matteo. Per evitare punizioni immediate o eterne, conveniva obbedire per accontentarlo ed ottenere il premio promesso. Un’immagine di Dio giudice severo, dispensatore di premi o punizioni secondo una logica puramente retributiva.

Dalla lettura dei Vangeli a me appare che Gesù ci presenti, invece, un’immagine di Dio padre misericordioso, sempre pronto ad accoglierci: il Dio ‘Abbà’, traducibile in italiano con ‘papà’ o ‘babbo’, che ricorre sovente nel Vangelo secondo Luca. Un Dio che è innanzitutto amore (vedi Vangelo secondo Giovanni), di cui noi siamo chiamati ad essere Tempio, cioè ad accoglierlo per essere abitati spiritualmente. Un Dio che ci ama, si prende cura di noi, e che ci chiama a prenderci cura dei nostri fratelli, in quanto siamo tutti suoi figli, secondo uno spirito di fratellanza, rendendo Lui presente nella storia. Più che proibirci certe azioni (come la maggior parte dei 10 Comandamenti), ci chiama a fare cose grandi, impossibili senza il suo aiuto spirituale, come amare i nostri nemici.

Dai Vangeli sembra emergere diffidenza e incredulità verso questa immagine di Dio Abbà presentata da Gesù. A cominciare da Giovanni il Battista, l’ultimo profeta dell’Antico Testamento, che è stupito dell’assenza al richiamo della punizione divina nella predicazione di Gesù. Allora manda alcuni suoi discepoli per chiedergli se veramente lui è il Messia. A cui Gesù risponde indirettamente: “I ciechi vedono, i sordi sentono, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i morti risorgono alla vita” (Lc 7,18ss). Cioè tutti segni di liberazione dell’uomo dal male per il suo bene, tutti segni della presenza di Dio.

Nella sua predicazione Gesù ha continui e aspri contrasti con le autorità religiose del tempo (Farisei e Sadducei). Gesù li accusa di avere sbarrato la strada che conduce dagli uomini a Dio con una tradizione fatta di numerosi precetti umani (Lc 11,46ss). E al loro legalismo, ribellandosi platealmente alle loro regole, contrappone l’immagine di Dio Abbà. Sarà messo in croce per la pretesa di autoproclamarsi Figlio di Dio e per quest’immagine di Dio Abbà che presenta alle folle.

I suoi stessi discepoli, che hanno avuto il privilegio di avere vissuto accanto a Lui per tanto tempo, che hanno visto i segni dei suoi miracoli, sembrano non comprendere il Dio da lui presentato: gli chiedono dei segni per credere, come Filippo che gli chiede “Mostraci il Padre!” e Gesù risponde “Non hai ancora capito: chi vede me, vede il Padre. Il Padre abita in me, è lui che agisce” (Gv 14,8ss).

Quella proposta dai religiosi del tempo di Gesù è una fede puramente moralistica, fondata sul rispetto delle Leggi divine, dei comandamenti e dei precetti morali. Occorre riconoscere un valore orientativo e indicativo alle leggi morali, come dei paletti che delimitano la strada su cui camminare, ma non bisogna ridurre la fede all’adempimento di questi precetti. O si ricade nell’errore di essere tanto puntigliosi nel seguire ogni più piccola prescrizione quanto lontani dal vivere secondo lo spirito della Legge; tanto attenti ad evitare comportamenti vietati quanto distratti dal mettere in atto comportamenti virtuosi, di fratellanza e di solidarietà. Sempre pronti ad emettere severi giudizi di condanna senza appello, con durezza di cuore e senza amore misericordioso.

Siamo chiamati innanzitutto ad essere fedeli ad uno spirito piuttosto che osservanti di una Legge. Non dobbiamo vivere ossessionati dal male che possiamo commettere e che fa anche parte di noi, ma impegnarci a superarlo per orientarci verso il bene, mettendolo in atto secondo quello spirito d’amore che Gesù ci ha indicato.

Quindi, non è facile comprendere e accettare questa immagine di Dio: per educazione ricevuta a temere Dio, per l’abitudine all’osservanza scrupolosa dei precetti che discendono dalla tradizione umana, per un concetto di giustizia umana senza cuore, o con un ‘cuore di pietra’, di una giustizia ‘retributiva’, per cui ci verrà riconosciuto nell’aldilà solo nella misura dei nostri meriti personali e nulla di più.

Ma questa immagine di Dio Abbà, misericordioso che si prende cura di noi, mi sembra l’immagine più coerente e credibile, oltre che più bella e desiderabile, veramente una buona novella. E’ questa l’immagine giusta a cui dobbiamo orientare la nostra vita? O è un’immagine che ci siamo costruiti perché bella e rassicurante?

Se la parabola del padre misericordioso (o del figliuol prodigo) fa’ chiarezza sull’infinito amore paterno che Dio ha per noi, sempre pronto ad accoglierci, la parabola degli operai nella vigna fa’ chiarezza sulla giustizia di Dio, che è diversa dalla giustizia umana.

I più fortunati non sono gli operai dell’ultima ora che ricevono la stessa paga di quelli che hanno lavorato dalla mattina. Ma quelli che fin dall’inizio della giornata hanno potuto lavorare per Dio (hanno conosciuto Dio, sono stati chiamati da Lui), rispetto a chi ha lavorato solo a fine giornata (ha conosciuto Dio più tardi, ha ricevuto la sua chiamata più tardi). Questi ultimi hanno provato l’angoscia del sentirsi inutili, del non essere stati chiamati da nessuno a fare cose grandi. Direi a fare le cose per cui siamo stati creati, che ci realizzano profondamente e ci rendono felici, pur tra difficoltà e sofferenze.

Queste parabole ci indicano anche che dobbiamo guardare con occhio benevolo gli ultimi arrivati. Imparare a guardare con lo sguardo di Dio chi ha ricevuto e accolto la chiamata di Dio, solo dopo aver attraversato esperienze lontane da lui, esperienze che sono il vero inferno dello spirito, che secondo me si può sperimentare solo qui in questa vita terrena.

Occorre far nostro lo spirito del Padre misericordioso che accoglie e ama, e non del fratello maggiore che diffida e tiene le distanze dal fratello ritornato.

Non è un rapporto d’affari quello che mi lega con Dio, è un rapporto d’amore filiale. Con Dio non sono in affari, non è che se faccio cose buone e sacrifici per lui ottengo in cambio un premio secondo una logica retributiva, come in una operazione commerciale. La fede non è decidersi di credere a Dio solo per fare un buon affare: io faccio il bravo, seguo i suoi comandamenti, in cambio Lui mi dà la vita eterna in Paradiso, e l’affare è fatto. Questa immagine di Dio è di un affarista che mi propone uno scambio ritenuto vantaggioso, una buona transazione commerciale, un investimento per l’eternità. Frutto di un calcolo di convenienza, decido di sacrificare la mia vita mortale in cambio della vita eterna. Ma non siamo mercenari a servizio di Dio, siamo suoi figli.

Il rapporto con Dio dovrebbe essere improntato così: nasce dall’amore per noi, simile all’amore gratuito di un Padre o di una Madre, e desidera che quel suo stesso amore sia presente in noi e ci accompagni nel cammino della nostra vita. Il nostro cuore amante ci spingerà a prenderci cura degli altri uomini e donne di questo pianeta come fratelli di un’unica famiglia umana. Senza paure, senza leggi minuziose da osservare, senza calcoli di convenienza, ma solo per amore.

Una vita di fede basata sull’amore non può limitarsi a compiere riti e ad accostarsi ai sacramenti dispensati in chiesa, senza toccare la nostra vita quotidiana. La cosa più importante non è partecipare a più Messe o Rosari possibili per propiziarsi la benevolenza di Dio e tenersi lontani dalla sua ira che ci porterebbe disgrazie. O accostarsi più volte possibile ai sacramenti per guadagnare punteggio nei confronti di Dio per l’ottenimento del premio finale. La Chiesa non deve essere il supermercato dei sacramenti dove vado per entrare in possesso di facilitazioni per ottenere la salvezza finale. Il nostro rapporto con Dio non deve essere un rapporto d’affari in cui faccio delle cose in cambio di altre cose. I riti e i sacramenti sono celebrazioni e segni di realtà più grandi, dell’amore misericordioso di Dio che ci chiama all’amore misericordioso con tutti gli esseri umani. Il prete non può essere ridotto ad una specie di ‘stregone del villaggio’ a cui rivolgersi per ottenere grazie, ma una guida che mi indica la strada per avvicinarmi a Dio. La Chiesa è una scuola dove si insegna l’amore di Dio per viverlo nella vita di tutti i giorni.

Purtroppo non esistono scorciatoie per l’impegnativo cammino spirituale personale a cui siamo chiamati tutti nella nostra vita. Non valgono raccomandazioni di questo o quel Santo per facilitare il percorso che dobbiamo compiere. Ci si può solo affidare all’aiuto dello Spirito Santo affinchè impariamo a vedere le cose con gli occhi di Dio e amare in modo gratuito come Gesù ci ha insegnato.

Non possiamo accontentarci di una fede devozionale sempre a caccia di prodigi o miracoli, tantomeno a vantaggio di noi stessi. Mi sembra che questa ricerca continua di eventi prodigiosi, di apparizioni con rivelazioni di verità nascoste, riesca oggi ad affascinare molte persone in buona fede attirate da presunti fenomeni paranormali. Spesso si resta turbati o intimoriti di fronte all’annuncio di apocalissi imminenti da cui salvarci, simili a quanto predicano da tempo i testimoni di Geova. Sul verificarsi frequente di miracoli o altri fenomeni paranormali sono molto scettico. Penso che il più delle volte siano il frutto di suggestioni collettive, da cui dobbiamo stare in guardia. Capisco che di fronte alle difficoltà della vita, soprattutto nei momenti in cui siamo provati dalla sofferenza, viene spontaneo appellarci a Dio e ai Santi per ottenere un aiuto. Ma purtroppo non esistono scorciatoie facili per farci risolvere magicamente e senza sforzo i nostri problemi. L’unico aiuto che possiamo chiedere e ottenere è di natura spirituale. Gli eventi prodigiosi sono una rarità misteriosa, sono eventi al momento inspiegabili che forse un giorno la scienza riuscirà a spiegare. Non possiamo rinunciare a prenderci le nostre responsabilità per quanto concretamente possiamo fare, non possiamo restare passivamente in attesa di eventi prodigiosi che d’incanto dovrebbero risollevarci da tutti i problemi della vita. Così scarichiamo le nostre responsabilità su Dio e i Santi che dovrebbero provvedere a tutto secondo il nostro volere. Ci deresponsabilizziamo e strumentalizziamo Dio e i Santi a nostro servizio.

La vita è un impegno continuo di conversione personale, un cammino di trasformazione spirituale che richiede costanza, tempo ed energie. Non si vive di gossip religioso in attesa di segni o interventi divini che magicamente risolvono tutti i nostri problemi. Si vive seguendo Gesù con quanto ha detto e fatto. Le verità essenziali ce le ha rivelate Lui. Non esistono annunci successivi che superano queste verità. Tutt’al più col tempo si possono scoprire nuove modalità di esprimere queste verità, di tradurle secondo il linguaggio di significati della propria epoca, alla luce delle nuove scoperte ed intuizioni messe a disposizione dal pensiero e dalla scienza.

CAPITOLO 4 – UN’IMMAGINE DEFORMATA DI DIOultima modifica: 2017-06-28T12:46:13+02:00da lucianorosso
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